Sto leggendo, con tutta la “lentezza” che merita, “Ebano”, del
giornalista-scrittore Ryszard Kapuscinski, sempre più rapito dalla sua idea di
giornalismo (stare sul luogo per conoscerlo e rivelarlo), che ha permeato tutta
la sua attività di corrispondente (principalmente) in Africa, dove ha
realizzato il suo sogno bambino: vagare (alla e dalla fine degli anni
cinquanta) nell’ignoto per informare su realtà sconosciute oltre ogni parvenza
e mistificazione. È davvero una lettura rivelatrice (come ogni
scritto-reportage di Kapuscinski) e che riconcilia il mondo con la parola e me
con tutt’e due. La mia stanchezza, soprattutto. E tutto lo stress accumulato
negli ultimi tempi. E l’elettricità che scintilla sulla pelle. E avrei bisogno
di staccare. Di concedere un ballo ai miei fasci di assoni logorati dal tempo e
da tanto inutile dire. E allora ci provo. Con un’altra lettura, che contiene
–nel titolo e nei versi- quel che ho appena scritto, traducendo il mio stato: “Danza
di nervi”. Si tratta della terza pubblicazione (per i tipi di Lupo Editore) di
Gianluca Conte, poeta e scrittore, culturalmente attivo, di questa Terra ch’è
tutto e niente per chi vi appartiene. E Gianluca Conte appartiene totalmente a
questa Terra, siccome questa Terra appartiene a lui. Forse, è anche per questo
che lo sento (omonimia a parte) molto vicino al mio sentire. Forse, è anche per
questo che i suoi versi mi appartengono. Forse, in qualche misura, i miei versi
gli appartengono. Ecco, quelle rare volte che il caso ci fa incontrare, non
servono parole: basta l’incontro degli sguardi per descrivere tutto quel che si
potrebbe dire e tutto quel che parole non ha, né può avere. E la sorpresa è
leggere parole che ho scritto tempo addietro sulla “sua” pagina sette. Mi piace
il sette. E la sorpresa è il numero settantasette. Sette sette. Il numero dei
componimenti raccolti in questo libro. Non voglio ricercare significati
reconditi. Né perdermi nella numerologia. “Numeri e numeri, che non mi sono mai
piaciuti”. Coi quali –però- quotidianamente bisogna fare i conti. E, a volte,
basta notare. E la sorpresa è constatare che, dopo tutto…, scrivere è il più
bel modo per ricominciare. Ovunque l’esistenza ti ha condotto, in qualunque
parte hai cercato di portarla, anche quando la strada è stata la stessa, se la
scrivi è mettere un punto e ripartire. Ché, fin quando ci saranno parole per
dirla, significa che è stata tua e tu ti sei donato alla vita. Quando questo
accade, significa che puoi tenderle la mano, invitandola a danzare con te, e,
mentre lei sorridendo s’alza sulle punte dei piedi, puoi mandare affanculo ogni
passo prestabilito e improvvisare quel movimento liberatorio col linguaggio del
corpo, ché tutta la fatica, tutta l’amarezza, tutta la tristezza, s’è fatta
ormai verso, sciolta nelle parole. Parole che cristallizzano il tempo, lo
fermano, lo rendono immutabile, non più modificabile, eterno. Quello è. E
siccome è stato resterà. Ché il Tempo è come la Terra: se non gli appartieni
e t’appartiene, è senza senso. Gianluca Conte è la Terra e il Tempo. Ché ogni
momento gli si è parato davanti. Ché lui ha guardato negli occhi ogni momento.
E hanno fatto i conti. E, finalmente, sono tornati. I dannati conti. Adesso i
momenti non gli devono più niente. Lui non deve nulla ai momenti. Da qui in
poi, polvere sangue squarci tagli silenzi e ogni fiore da loro nato,
percorreranno le strade del mondo insieme. Una strada di luce. Ché ogni ombra è
rischiarata da giochi di bambini. E la notte sarà compagna. Oltre ogni solitudine.
Oltre ogni dolore. Oltre l’inettitudine dominante. Ché “Oltre la materia c’è il
sogno / di volare / d’arrivare dove il sogno / è camminare. / Se le foglie
cadono / non è per debolezza / è per rinascere / domani / ancora / dalla terra.
/ Terribile non è illudersi / ma smettere di farlo.”
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