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domenica 31 ottobre 2010

L'eroe dei due mari di Giuliano Pavone (Marsilio X)




















Per parlare dell’Italia di oggi non si può prescindere dall’essere acidi, e un po’ malevoli, visto che tra “guardonismo” televisivo e “bunga bunga” vari il senso della perdita di orientamento è plausibile. In Italia la letteratura degli ultimi anni ha prodotto molti “beautiful monsters” dalla corrente “Gioventù cannibale” di Daniele Brolli sino al rigore del collettivo Wu Ming, per non parlare del fetish hard core di una Isabella Santacroce. E poi ci sono ancora i romanzi di Gaetano Cappelli, Niccolò Ammaniti e Melissa P. Ma esiste anche una geografia del sentire letterario, che ad esempio vede in Puglia la baresità di un “Capatosta” di Beppe Lopez edito ora da Besa, e la Taranto de “Il Paese delle spose infelici” di Mario Desiati. Ma ora la casa editrice Marsilio ci dice che Taranto è la città anche di Giuliano Pavone che pubblica “L’eroe dei due mari”. Il libro è una folta selva di anedotti, storie e malumori che si agitano sotto la cappa di una città massivamente decadente e velenosamente italsiderea. Metafora di quello che accade oggi nel nostro Paese? Sicuramente, ma vediamo di entrare nello specifico. Un evento improvviso, immenso e dalla portata quasi galattica sconvolge la città della Marina Militare: Luìs Cristaldi, fuoriclasse brasiliano dell’Inter, vuole mantenere fede ad un voto singolare e bizzarro. Luìs Cristaldi vuole giocare una stagione, GRATIS, nel Taranto, piccola squadra della C1 ripescata in B per chissà quale scherzo del destino, e che ora giustamente sogna la A. L’esaltazione dei tifosi tarantini raggiunge livelli parossistici, tanto da lambire anche porzioni della società civile addirittura lontane dal calcio e da tutto il suo mondo fatto di miliardi, pubblicità e “pubbicità veliniche”. Si tratta di un libro scritto non solo bene, ma che fornisce diverse chiavi di lettura e dunque può essere letto a più livelli: si parla di Puglia in maniera poeticisima; si parla di voglia di farcela partendo proprio dal mondo del calcio calato in contesti socio/economici non proprio floridi; si parla di malesseri non troppo latenti che raccontano di personaggi strani, scapestrati, scavezzacollo vari e multicolori, di disoccupazione, di margini e marginalità; si parla di giornalismo sportivo con i suoi se e i suoi ma … Fondamentalmente Giuliano Pavone ci regala una brillante narrazione che può leggersi come una parodia di una parodia della commedia all’italiana, ma che lascia un po’ di amarezza, una volta terminato il libro, perché la lucidità con cui vengono descritte quelle latitudini rivela come non tutta la sporcizia può essere nascosta sotto il tappeto … naturalmente chi ha orecchie per intendere … (stefano donno)

sabato 30 ottobre 2010

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venerdì 29 ottobre 2010

Cicatrici, di Gianluca Morozzi (Guanda). Intervento di Nunzio Festa





















In una città del Nord, forse Milano, un uomo ha compiuto un omicidio in pubblico. E, quest'uomo ormai colpevole, spiega la sua vita e la sua azione alla psicologa chiamata a periziarlo. Ma prima, e ovviamente, dopo, e certamente durante questo “Cicatrici” - nuovo libro del mai giustamente amato autore bolognese Gianluca Morozzi, un padre irlandese massacra quasi la sua intera famiglia. Ed è da qui, anzi, che comincia la storia. Vicenda, tutta, che se inizialmente sembra condita e poi persino ammantata di pretestuosità, si sviluppa con una leggere, scioltezza, scorrevolezza impareggiabile. Alla Vitali delle opere migliori, per far capire. E, infine, sotto una certa luce che porta al noir e che nel contempo ci porta fuori dal noir. Per dire d'un'avventura che prende in ogni accento. Soprattuto a targhe inattese. Ad azioni impensabili. Fitta fitta, in toto, di colpi di scena. Che mai si comprenderà che cavolo c'entri infine il padre d'Irlanda con il quasi anonimo, quanto buono, Nemo Quegg. Nemo, protagonista del romanzo, è finito (si diceva) in gabbia per un delitto atroce. Ha accoltellato, davanti a tanta gente, persino bambini, un uomo. Con freddezza e premeditazione. Senza meritare, d'altronde, l'infermità per mente alluvionata. Morozzi, lo scrittore che normalmente stupisce con trame prese da una fantasia in continuo rinnovarsi, di nuovo mette insieme la brillantezza del suo stile asciutto e scattante con una trama che disegna vicende su vicende. Nonostante non s'arrivi a pagine da scartare, specialmente. Questo nuovo romanzo è suddiviso in: prologo (il massacro), la strana storia del tipografo triste, 1942 e oltre, Karmageddon; e si prenda pezzo per pezzo al fine di sapere più esattamente. Che solo in Karmageddon sappiamo dove nasce l'idea della storia e da cosa la storia davvero sia attraversata. A questo punto è da scrivere o no? No. Almeno per adesso. Ma con l'invito a leggere. Perché la trovata è di quelle, similmente al passato, geniali. Se in “Blackout” il sangue sgorgava più fortemente e nel frattempo rigenerava gli episodi a ogni loro piccolo relax, in questo “Cicatrici” quello che passa Felice, uomo o donna?, sangue a parte, è persino più travolgente. Sconvolge. Che, di fondo, esiste una linea, chiaramente spiegata, utile a farci comprendere persino il motivo d'una certa sottomissione. O di un certo tipo, più esattamente, di sottomissioni. I caratteri di questa storia, quelli dei personaggi insomma, si mischiano al netto delle loro fluorescenza psicologiche. A questa ragione sarà quello che non s'è scritto qui a giustificare ogni cosa. Il prolifico Gianluca Morozzi, che ha in cantiere attualmente diverse altre opere, è tornato davvero allo spessore di “Blackout”. Mettendo fuori questo noir (noir insolito?), dove un tipografo triste sente una strana, sconosciuta, musica. E s'innamora. Un medico s'innamora, però, d'una strana, 'sconosciuta', tirocinante d'ospedale. Dall'altra parte del mondo, nei sogni, altro avviene. Cose comuni. Ma già sentite? Portare esempi, grazie.

mercoledì 27 ottobre 2010

“Il suono dell'orologio” di Anastasia Leo (Luca Pensa editore)












Gli anni Sessanta sono stati per gli U.S.A. un decennio di grande fermento, un periodo che comprende la crisi di Cuba, l’incredibile situazione in Indocina (Vietnam, Cambogia, Laos) e le tante azioni di spionaggio della CIA, mentre attorno viene attestandosi, il mostruoso potere dei mass-media che riescono a manipolare le notizie e le menti della gente. È tutto un mondo dove ciò che non si condivide lo si riversa nella rivoluzione psichedelica, nella liberazione dell'individuo, nell'abbandono della società, nella non-violenza, nel misticismo, ed è in questo mondo che nasce la poesia “beat”, un universo altro dove la fanno da padroni l'idealismo e l'individuo di Whitman, la libertà, la fuga-esilio nella natura di Thoreau, le soluzioni comuniste e comunitarie in campo economico e sessuale e le utopie socialiste come quella di R. Owen. Un multiverso dove c’è posto per l'Oriente, l'io-tutto dello Zen e il “flower power”, il potere dei fiori, dove tutto si ibrida in un facile ottimismo non-violento concretizzato nell’uso libero di droga, nel sesso e nelle religioni orientali. E dunque la Beat Generation è l’emersione di tutto questo e molto di più in un movimento socio-culturale estesosi a tutta una popolazione giovanile d'America e d'Europa che diventa da subito contro/cultura e contro/tendenza. Un caratteristica nota di questo movimento, a chi si occupa di letteratura e poesia, è stata senza ombra di dubbio la stampa underground, quella sotterranea come il Greenwich Village Voice a New York e l'Oracle e la City Lights Books di Ferlinghetti a San Francisco. Una stampa forse di “regime alternativo” principalmente incentrato sulla propaganda contro la guerra del Vietnam e che fece incrementare nel ’67 il numero di tali giornali che invasero la California. Individuiamo due filoni principali di questi free press: quello della New Left, Nuova Sinistra, e quello dell'attivismo non-violento. Questo è parte del mondo beat, è il sotto/livello antropologico di quel coarcevo di idee, slanci, sregolatezze e furori che nutrivano quella galassia di storie e vite, quello di Kerouac, Burroughs, Ginsberg, questo è il mondo che io ho visto nei versi di Anastasia Leo. E naturalmente si tratta di un giudizio di valore soggettivo che come tale deve rimanere per due o tre considerazioni che andrò sviluppando. Dunque mi sottraggo volutamente ad un’analisi che sappia di verità assoluta. Nella Poesia, è tutto finzione, è tutto un gioco di specchi che così deve rimanere, per non perdere della sua malevola bellezza. Il primo aspetto (tale da rendere questa raccolta singolare) è che Anastasia Leo sia un’adolescente, e come tale non si può e non si deve parlare di una sua poetica, perché non ne ha e non può averla alla sua età. Per questioni di vissuto soprattutto non di tecnica poetica che ha già reso sua. Fare il contrario sarebbe una cattiveria immensa nei suoi confronti perché non le si darebbe lo sprone a cercare la sua identità, ovvero che tipo di poeta vuole diventare - lirico, tragico, satirico etc, etc - o non diventare!. Secondo aspetto, il suo fare versi è frutto di una manducazione costante e onnivora di classici della letteratura e della poesia mondiali da Rimbaud, Baudelaire, Lautremont sino ai cantori della Beat Generation e molto molto di più, che le ha permesso di trovare il respiro, il ritmo della sua poesia, insomma di mettere al mondo un organismo poetico che sin da subito ha saputo nutrirsi famelicamente dei suoi guizzi migliori. Sempre ad oggi, ovviamente. Terzo aspetto, Anastasia Leo, è figlia d’arte, e questo per lei è un “demerito” perché agli occhi di molti cultori delle lettere, potrebbe apparire un inevitabile conseguenza di discendenza “nobiliare” tra gli allori delle genealogie poetiche di queste latitudini. Ma posso dire che si sbaglia e di grosso. Era inevitabile che Anastasia diventasse una sacerdotessa della Poesia, inevitabile come lo può essere il sorgere e il tramontare del sole, o la morte. Perché Anastasia Leo, diventerà una grande poetessa, se solo donerà tutta se stessa alla Vita, e alla Poesia, perché queste due Parche, tutto chiedono a chi a loro si consacra, e tutto pretendono. Ad Anastasia dedico questo augurio per la sua Poesia, che le servirà da lanterna anche nell’oscurità più totale:” Se vuoi tutto devi sacrificare tutto, ma non per sempre” (Georges Ivanovič Gurdjieff). Del suo modo di procedere per/versi non posso che dire questo: la sua lingua è asciutta e precisa come una composizione geometrica. Il suo vedere, è uno sguardo inquieto restituito da una scrittura brulla, scorrevole ed essenziale, formalmente ( e superficialmente solo per chi non coglie le sue profondità già abissali) dimessa. Il montaggio poetico dei versi è una consecuzione di episodi il cui principio ordinatore è la poiesi stessa, lo spostamento dello sguardo, la variazione del punto di vista, in un “metissage” di esperienze e situazioni dalla suggestione profonda. Il resto … scopritelo voi! (Stefano Donno)

info: info@pensaeditore.it

lunedì 25 ottobre 2010

Il cimitero di Praga di Umberto Eco (Bompiani) ... anteprima 2 capitoli!

Mentre per Mondadori esce l’ultima fatica di Walter Siti dal titolo “Autopsia dell’ossessione” (splendido romanzo dove gli impulsi più oscuri la fanno da padroni) ovvero l'ultimo atto della trilogia aperta da “Troppi paradisi” e da “Il contagio”, ecco che Bompiani non si fa attendere, e per questo autunno appena iniziato consegna ai lettori un piccolo capolavoro. Ma occorre in questo caso lavorare di fino. Siamo nel 1980. Sugli scaffali delle librerie italiane esce “Il nome della rosa” il romanzo d'esordio nella narrativa di Umberto Eco, un libro intelligente, divertente, così ricco che permette diversi livelli di lettura. Poi il 1988. Eco non perdona. Esce il “Pendolo di Foucault”, seconda prova scritturale per questo autore, ambientato nei primi anni ottanta, che come scrisse Jacques Le Goff in una recensione su L’Espresso « ... questo romanzo magico sulla magia, questo romanzo misterioso sul segreto e sulla creatività della finzione, questo romanzo tumultuoso, questo romanzo luminoso su un mondo sotterraneo... ». Penso che a queste due opere possa associarsi, guardando un po’ a tutto il percorso scritturale di Eco, il più recente “Baudolino” eccelso lavoro ambientato tra il XII e il XIII secolo dove si racconta, attraverso le parole del protagonista Baudolino, di scenari di pura fantasia e di personaggi mitici, attraverso una successione sconfinata di episodi storici e leggende, dalla fondazione di Alessandria all'Italia dei comuni e del Barbarossa; dalla nascita delle università all’incredibile viaggio alla ricerca del mitico Prete Giovanni e del Graal. Un “fritto misto” insomma tra il picaresco, il giallo, e il saggio di profilo storico. Ora dopo poco più di trent’anni dall’uscita del suo romanzo d’esordio, il Nome della Rosa, Umberto Eco (a partire dal 29 ottobre) consegna al pubblico, il suo nuovo romanzo dal titolo “Il cimitero di Praga” (ed. Bompiani). Siamo a metà dell’800. L’intenzione del Nostro, è quella di parlare, togliendosi magari anche qualche sassolino dalla scarpa, della nascita delle nazioni moderne. In filigrana si parla di un falsario, il Capitano Simonini, spia per conto di parecchi paesi d’Europa. Il riferimento più gustoso, che permea il nostro istinto di acquisto nei confronti di questo titolo, è al cimitero dove è sepolto il rabbino Jehuda Low ben Bezalel, che creo’ il Golem. Golem significa arti magiche, significa Sefer Yetzirah, significa Qabbalah. Sarà un libro che consiglio caldamente, sarà sicuramente corposo (più o meno cinquecento pagine), sarà sicuramente un capolavoro! Imperdibile!!!

......... AGGIORNAMENTO novembre 2010
Il libro è in vetta alle classifiche dei libri più venduti
Ecco i primi 2 capitoli del libro
Il cimitero di Praga, Umbero Eco, Bompiani, in libreria dal 29 ottobre

venerdì 22 ottobre 2010

Black Wade di Franze & Andarle (Edizioni Voilier). Intervento di Massimiliano Manieri










Il fumetto (edizioni Voilier di Maglie in provincia di Lecce) è ambientato nel mondo dei pirati. La vicenda inizia presentandoci Jack Wilkins, luogotenente della marina inglese, costui sta per sposare Annabeth, una nobildonna, ma in seguito ad un arrembaggio, viene rapito dal capitano Black, che pareva non vedere l’ora così di avere un maschietto con il quale passare lieti momenti tra un piratata e l’altra. Il fatto è che tra i due nasce una grande passione che nel tempo inizia a coinvolgerli oltre la carne. Black, ad un certo punto pare riesca a scrollarsi di dosso la vicenda, visto che viene abbandonato dai pirati in mare aperto, tornato quindi alla vita sociale, si accinge a sposare la sua bella. Ma poco prima delle nozze Jack viene a sapere che Black è stato fatto prigioniero dalla marina inglese e si ritrova a scegliere tra il proprio matrimonio e l’amore per il focoso capitano…

Non c’è che dire, un atto di coraggio, quello di Franze & Andarle (42 e 43 anni, italianissimi), pubblicare un fumetto omoerotico nel paese dei Papi!!! Linee pulite, sulle loro pagine patinate, uno studio attento delle proporzioni fa scorrere le vignette in modo suadente, e nonostante l’abbondanza di cazzi ellenicamente esibiti, non si percepisce cenno di volgarità nello srotolar di storia che vi accingete a leggere. Ottimo per una lettura domenicale pomeridiana (stando attenti a non farsi molto notare, magari), induce ad un solletichio politically correct, in un epoca in cui fare outing è fashion (e fa vendere…). Merita i soldi spesi in funzione del fatto che gli esperimenti fumettistici italiani sul campo omo si contano sulle dita di una mano (anche monca…), merita perché raramente si troveranno in edicola fumetti ove i giochi d’ombra sublimi sui corpi ivi rappresentati, raccolgono uno studio raffinato delle controluci, negli spazi che i personaggi mano a mano occupano. Confezionato ottimamente rappresenta una chicca per colui che intende sorprendere gli amici con letture pruriginose d’avanguardia senza troppi sofismi, ma tecnicamente pronte a stupire la pupilla anche allenata alla tecnica più raffinata, che qui si riscontra, ed il palato, languidamente, incontra. Non fa rimpiangere di certo, se rapportato, altri eccellenti autori di fumetto omoerotico d’oltreoceano, come Kinu Sekigushi, o il più vicino Patrick Fillion, anche se i parametri mutano chiaramente, a seconda del taglio d’ognuno, ed a seconda della fetta di pubblico che ogni autore tocca, madendo di particolare succo, ogni sua storia.

mercoledì 20 ottobre 2010

Lezioni di arabo di Rossana Campo (Feltrinelli). Intervento di Elisabetta Liguori





















Rossana Campo conosce le donne e le donne conoscono Rossana Campo. In tante hanno compiuto le prime esperienze e acceso le prime emozioni leggendo questa scrittrice genovese, ora divisa tra Roma e Parigi. La Campo, infatti, con “Lezioni di arabo” edito da Feltrinelli, è oggi al suo decimo romanzo, ma la sua fabbrica di personaggi è ancora in piena attività. A pensarci bene esistono due tipi di narratori. Quelli che costruiscono storie, intese come intreccio, concatenarsi logico di eventi, e quelli che costruiscono persone, modi di essere, intere popolazioni e mondi di riferimento. La Campo rientra nella seconda categoria: plasma i suoi personaggi, lasciandoli muovere liberamente all’interno di un universo artificiale del tutto autosufficiente, minuziosamente ricostruito in ogni suo dettaglio e dal suono sorprendentemente familiare e vivo. Chi sono questi personaggi solitamente? Uomini e donne, vivacissimi ma marginali, antieroi, vinti, sfigati, stralunate sagome cariche di umanità e stupore. La lingua utilizzata per raccontarli da sempre mira ad elidere la distanza tra lo scritto e il parlato. È’ quella rumorosa e cromaticamente varia del quotidiano. Riuscitissima sia dal punto di vista lessicale, che fonico. Parigi, luogo e personaggio anche essa, è molto spesso parte di questo mondo frizzante. Probabilmente perché la più multietnica delle città europee, di certo perché tra le più magiche. Nel suo ultimo lavoro, la protagonista è Betti che, divorziata da sette mesi, fa la cameriera nella capitale francese e lavora in una rosticceria araba. Lì conosce Suleiman, giovane algerino, malinconico e depresso, e da lui cerca di apprendere nuova lingua e nuovi costumi, per confrontarli ai suoi. E da quelli magari rinascere. In realtà è Betti la donna dalla quale apprendere. La sua formazione si è già compiuta, in un passato che compare a tratti nella narrazione. Un passato violento e cupo, che l’ha rapidamente avvicinata ai misteri del sesso e resa incredibilmente permeabile alle variabili più crude della vita. Nonostante Betty sia un personaggio corrotto, infatti, la sua innocenza è più forte di tutto. La sua curiosità viaggia su luoghi e persone, sfiora e trasforma quasi magicamente. Come una novella Amèlie - quella de Il favoloso mondo di Amélie, film di qualche anno fa, splendidamente scritto e diretto da Jenuet ed interpretato da Audrey Tautou -, Betty riesce a vivere la sua magra esistenza, restandone una spanna sopra, trasformandosi così in una surreale icona dell’essere donna oggi. Tutto ciò che le è intorno, vivo e pulsante – sesso, amore, dolore e grammatica – diventa per lei strumento di conoscenza. In qualche maniera sarà, dunque, lei ad insegnare a vivere all’attonito Suleiman. A suo modo. E del resto il gioco dell’apprendimento, la fatica del reciproco conoscersi, dell’adattarsi all’altro, oggi dovrebbe essere sentito da tutti come bisogno crescente e primario. Nel romanzo Suleiman lamenta proprio questo: dopo l’11 settembre il vaso di Pandora sembra essersi aperto e aver rovesciato sugli uomini tutti mali del mondo arabo. Solo i mali però, in un’immagine statica oltre che sintetica, frutto di una estrema e comoda pigrizia. “La verità è che l’alfabeto arabo ha migliaia, milioni di lettere” urla Suleiman in una delle sue lezioni, un infinito numero di variabili che lo rendono molto più complesso di quello che si vuole credere. Bisognerebbe, dunque, rinascere da qui, provare a considerare queste variabili, pesarne la diversità, analizzarne il molteplice liberi da ogni condizionamento, per capire davvero: questo è l’invito che il mondo della Campo sembra voler fare al lettore

lunedì 18 ottobre 2010

Il colore del melograno di Giuseppe Scelsi (Besa editrice)













Difficile dire cosa sia l’Albania, o cosa rappresenti nell’immaginario collettivo. Una cosa è certa per parlare di fatti “recenti”: dal 1946 al 1990 l’Albania è stato uno stato nazional-comunista, stalinista, anti-revisionista. Nei primi mesi del 1946, Enver Hoxha diviene il capo dello stato albanese, e concentrerà la politica del “paese delle aquile” intorno al Partito Comunista, eletto unico partito legale. Sotto questo presidente in Albania accadde di tutto e di più … la Storia ne ha parlato abbondantemente. Enver Hoxha muore nel 1985, lasciando tutto nelle mani di Ramiz Alia che nel 1991 concede le prime elezioni libere che decretano la fine formalmente del comunismo. Il paese viene scaraventato così in un’atroce presa di coscienza del suo limitatissimo sviluppo socio-economico. Per questo decine di migliaia di albanesi, proprio in quegli anni decidono di partire alla volta dell'Italia e si riversano via mare sulle coste della Puglia, lungo il litorale salentino tra Brindisi e Otranto. Questa è una “zippatura” della storia di una nazione sotto moltissimi aspetti splendida, affascinante, complessa! Una terra che si può comprendere oltre che attraverso le narrazioni che i libri di storia ci possono dare, anche attraverso gli splendidi lavori di Ismail Kadaré, o Ornela Vorpsi, o ancora gli incantevoli versi di protesta e lotta di Gezim Hajdari.o le incredibili storie degli anni del “grande esodo” raccontate da Leonard Guaci affidate alle pagine del suo lavoro dal titolo “I grandi occhi del mare” (Besa editrice). Anche questo “multiverso” di colori, odori e suoni racconta l’Albania, proprio come di Albania si parla nell’interessantissimo lavoro di Giuseppe Scelsi, uscito per Besa, dal titolo “Il colore del melograno”. Giuseppe Scelsi svolge la professione di magistrato da quasi trent’anni, e questo è il suo primo lavoro. Ora un’esordio che mi permetto di definire più che brillante, anzi splendido. La scrittura di questo autore costruisce architetture narrative così bilanciate da permettere al lettore di gustare ogni pagina, di sentire le forti emozioni di rabbia e anmarezza che ogni parola offre in questo lavoro. Si tratta di un volume dove si raccontano di crolli di ideologie, e di un popolo, quello albanese, che sulle macerie costruisce – ovviamente riferendoci allo spazio/tempo raccontato nel libro – e accumula Deriva. Il sistema del potere comunista, si rivela fragile e dai piedi di argilla, e questo non è che il confine oltre il quale c’è un baratro dalle profondità abissali. Giuseppe Scelsi ci parla di Filip Galimuna, sergente dell’esercito albanese che nel sangue ha un amore sconfinato per il pianoforte, e che in un batter d’occhi si ritrova senza “caserma”, senza uomini, senza patria, e senza donna. Quando Galimuna scappa insieme alla moglie e il più piccolo dei suoi figli dall’Albania, in Italia vengono ospitati da un collega del suo maestro di musica, Arturo Mondelli, che “respira” la genialità artistica del sergente, e lo sprona a proseguire negli studi di pianoforte, portandolo al successo nelle più importanti rassegne musicali internazionali. Ma il Destino per Galimuna, ha ancora delle sorprese, che lasceranno chi leggerà questo lavoro col fiato sospeso!

(Stefano Donno)

domenica 17 ottobre 2010

Attila di Michel Rouche (Salerno editrice)












«La stirpe barbarica degli Unni in Tracia diventò talmente potente da conquistare oltre cento città, mettendo Costantinopoli quasi in ginocchio e facendo fuggire molti abitanti... Omicidi e spargimenti di sangue furono talmente numerosi da non riuscire a contare le vittime; occuparono chiese e monasteri e trucidarono monaci e giovani donne. » (Callinico, Vita di Sant'Ipazio)

Un popolo quello degli Unni legato indissolubilmente nella storia a un nome: Attila. Personaggio a cui è stato legato un soprannome: “Flagellum Dei” ("flagello di Dio"). Feroce, spietato. Si diceva che dove fosse passato l’erba non sarebbe più cresciuta. In numerosi racconti però viene descritto come un grande e nobile sovrano. Attila, “Flagellum Dei”, l’unico uomo che è stato in grado di modificare i destini dell'Impero romano. Nel nostro immaginario collettivo Attila è legato a delle pellicole alcune spassosissime altre perle preziose dell’intrattenimento cinematografico contemporaneo tipo la comica e caricaturale interpretazione di Diego Abatantuono nel film “Attila flagello di Dio”, oppure possiamo ricordare come Attila sia tra i vari personaggi del film “Una notte al museo”, dove tenta di fare fuori Larry il protagonista interpretato da Ben Stiller, o ancora si può ricordare “Attila l'Unno” un film del 2001, dove viene raccontata la guerra di valori sociali e umani di due mondi incarnati da due “grandi” del passato come appunto Attila re degli Unni e il generale romano Flavio Ezio. Ora per Salerno editrice, esce in libreria un libro che mette un po’ di ordine sulla figura di Attila, molto spesso vittima di molte leggende e falsi miti. L’opera è di Michel Rouche e ha per titolo “Attila”. In poco più di 382 pagine, l’autore riesce ad avvincere il lettore grazie ad un suo modo spigliato di scrivere per la divulgazione, presentando documenti e dando indicazioni di fonti ben precise su un’uomo che in vent'anni riuscì a cambiare per sempre la Storia. Certo Attila rimane pur sempre una figura leggendaria nella storia europea, ma questo lavoro, una volta terminato, ci pone davvero dinanzi ad un pesante interrogativo: davvero è stato un flagello di Dio, davvero è stato solo un bruto, un incolto, un distruttore? E’ stato certamente anche questo, ma non solo questo. Michel Rouche ci dimostra infatti che Attila è stato un abile stratega, un fine politico, un oculato amministratore e addirittura elegante diplomatico se si pensa alle sue inedite coalizioni strategiche, come quella tra il generale romano Ezio e il re dei Visigoti, «barbaro» tra i barbari. Inoltre godibilissimo, il capitolo al termine della pubblicazione che si occupa del mito di Attila in età moderna e contemporanea: da Corneille a Verdi e Wagner, fino alla mistificazione che ne fece Hitler. (Stefano Donno)

Michel Rouche è Professore emerito all'Università la Sorbona di Parigi, esperto della Tarda antichità e dell'Alto Medioevo. La Salerno Editrice ha già proposto in edizione italiana il suo studio su Le radici dell'Europa (2005).

sabato 16 ottobre 2010

Poesie (1984-2010), di Claudio Damiani, a cura di Marco Lodoli, (Fazi).

Un gradito ritorno che è presenza per la gioia di vivere e morire. A due anni di distanza da “Sognando Li Po”, omaggio 'elegante' e sentimentale alla poesia cinese, per i tipi della sempre disponibile e attenta Fazi esce l'antologia (che raccoglie anche una piccina sezione d'inediti) del nostro poeta nazionale, quanto appartato, Claudio Damiani; una summa che si deve grazie al lavoro appassionato dello scrittore Marco Lodoli. Che, tra le altre cose, in sede di prefazione che può 'stranamente' esser un tutt'uno col libro, ricorda alcune chiavi di lettura delle poesie di Damiani. Senza fare torto a Lodoli, comunque, o senza minimamente volerlo, si può provare ad avviare altri approcci: nuove adesioni. A un libro, va spiegato, che può – non ce ne voglia l'autore – stare affianco alle opere serie e prestigiose d'altre penne sottratte alle indagini del classicismo critico d'Italia. Autori che non dimenticheremo. Sempre. E poeti, su tutto, vedi il nostro diverso Claudio Damiani. Che Damiani, premi a parte, perché di riconoscimenti ne ha ricevuti molti, e tanti ne riceverà ancora, se pur non ancora venga decantato al pari d'un Luzi e d'un Cucchi, davvero insegna – lui maestro in più significati – quanto la quotidianità sia terra di poesia. Nel sunto, “Sognando Li Po” arriva verso la fine. Prima dei nuovi versi de “Il fico sulla fortezza”: sezione in forma di silloge che affida appunto a un esemplare ed esemplare come vero fico la normale consuetudine di meravigliarci. In apertura Lodoli ha voluto sfiorare la maturazione, quella dell'adolescenza e oltre di Damiani, chiaramente spiegando quanto il “sentimento” e la freschezza delle riviste “Braci” e “Prato Pagano”, quelle d'altronde dal poeta vissute insieme all'altro intramontabile Beppe Salvia, lui, quest'ultimo, persino lucano, sia stata la differenza di tanto confronto comunque aperto nell'ex Belpaese. Poi, da presto, si prendano fra le dita alcuni versi dei due componimenti titolati entrambi “Elegia”, dal libro “Fraturno”, e iniziamo a saper il resto. Da “La mia casa” (1994), invece, s'entri, per meglio leggere, in: “(...) Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà, / che bello che non siamo eterni, / che non siamo diversi / da nessun altro che è vissuto e che è morto, / che è entrato nella morte calmo / come un sentiero che prima sembrava difficile, erto / e poi, invece, era piano.” Riusciamo a non tornare a sentire più volte questi passaggi? Queste descrizioni che sono un silenzio oltre il silenzio stesso, oltre lo stesso silenzio dell'affratellamento fra pari? Sorretto, per di più, una piccola voce (o una musica?) che non è sottofondo, ma parte essa stessa del destino immortalato? L'apice è raggiunto nella “Miniera”. Solcando frammenti, vedi il dialogo con gli alunni proprio di Claudio Damiani su vita e morte, che conducono in una indimenticabile canto di “Attorno al fuoco”, una delle 'parti' più recenti dell'antologia: “Noi della resistenza non è che andiamo in strada a sparare, / né ci nascondiamo in montagna, / né scriviamo sui giornali, noi della resistenza non facciamo niente / ma quando moriremo avremo nella nostra mente / un ordine beato che chi ha consolato, (...)”. Parole sottratte alla guerra, e in special modo alle logiche di guerra, stipando in loro rabbia e specialmente orgoglio. Fiori di dignità. Un dire perfetto. Che trattiene l'impuro e nel mentre ricorda quanto impuro ci sia. Come se fosse un parlare ai figli. E dalla stessa parte dei figli. Quindi di tutti. D'ognuno. La poesia di Claudio Damiani consegna al cuore l'esistenza dell'universo naturale in una Italia solo da ripensare.
(Nunzio Festa)
link per leggere la prefazione + 10 poesie tratte dal libro di
Claudio Damiani, Poesie (1984-2010), a cura di Marco Lodoli, Fazi Editore, 10 settembre 2010

venerdì 15 ottobre 2010

Benedetto il frutto di Federica Francesca Ricchiuto (Libellula edizioni). Intervento di Francesco Caccetta

















Salire e scendere le scale della vita, dei ricordi, della propria esistenza, è esercizio non facile: a volte gioioso e spensierato in quel tuffarsi voluttuoso nella magia del passato, di quell’essere fanciullo, ma altre ancora faticoso e dolente, rapido e spietato nel riaprire ferite mai rimarginate o crudele nell’aprire la stanza dei rimpianti e delle vergogne, dei conflitti e delle sconfitte. Un affannarsi nella fragilità e nella grandezza intrinseca dell’essere umano preso integralmente con le sue paure, le sue angosce, le sue speranze, i suoi aneliti verso l’alto, le sue esaltazioni ma anche con le sue intime storture, con i suoi vizi e con le sue aberrazioni. Ed è in questo ambito che ci porta la lettura di Benedetto il frutto di Federica Francesca Ricchiuto. Una storia che è di tutti i giorni, un racconto di vita e di tempi, di uomini ma soprattutto di donne, di amori e di passioni, di colpe e di paure, di slanci alti di sentimento, di lancinanti tormenti e di conflitti interiori. Pagine scritte con punti alternati, di dritto e di rovescio, per introdurre il lettore e la coscienza a due mondi diversi, a due storie lontane e contrastanti ma paradossalmente identiche, a due donne figlie del loro tempo, ad una condizione femminile che lega indissolubilmente la donna alla vita. Escono così fuori prepotentemente, ma con grazia descrittiva e con pienezza di contenuti, due donne, due mondi, due società storicamente, culturalmente, moralmente, socialmente ed economicamente diverse. Da un lato una società a noi non troppo lontana ma ormai profondamente distante e diversa, forse più semplice, più ordinata secondo schemi che il tempo ha scolpito nel suo lento fluire, che si muove secondo partiture di modo e di maniera, e che rappresenta l’ambito storico e temporale di Maria, figlia del suo tempo, dell’Italia meridionale del dopoguerra, vittima di una condizione femminile ad autocoscienza limitata. Dall’altra la società odierna, moderna, complessa, dai molteplici aspetti, espressione della velocità e della continua evoluzione, frutto della contestazione, della interminabile libertà, è la società di Marta, contraltare naturale di Maria. Marta libera per un’autocoscienza piena, o forse apparentemente piena, ebbra dell’Io e del sé. Libera da condizionamenti ma schiava del successo, del lavoro, della macchina complessa della costruzione della carriera, dell’affermazione, dell’autostima. Maria, donna sola, schiava della maldicenza, del giudizio altrui, della paura ancestrale delle colpe e del peccato, vittima del sopruso e dell’abuso, di quella violenza che è rimasta per troppo tempo e per troppi anni nascosta, ama profondamente la vita che ha in sé nel rispetto e nel segno di un Dio, preda delle sue convinzioni, di una religiosità che è quasi connaturale. Per Maria Dio c’è sempre e lo si avverte continuamente, nelle parole, nelle speranze, negli atteggiamenti. Marta è la diversità moderna che costantemente si alterna a Maria, che pagina dopo pagina dispiega la sua figura femminile, tormentata, la sua solitudine da un dio, tutta presa dalla macchina consequenziale della vita programmata e tecnologica, schiava della superbia del tempo moderno, di una sorta di hybris oggi tutta femminile, che trova sponda nella tracotanza della scienza, schiava del culto di se stessi, schiava di una sete di appagamento personale. Maria che oscura se stessa e la sua felicità in onore di una vita, Marta che sopprime una vita in ossequio al suo futuro ed a se stessa. Maria che vive e parla di amore, Marta che perde un amore e soffoca il suo amore. Fra le due donne, fra le loro realtà, la figura di Antonio che vive una personale nemesi storica, che osserva l’assurdo della vita: “proprio nel momento in cui scopriva di essere il frutto di un orribile atto, un figlio non voluto, nella sua stessa vita arrivava un figlio non voluto”. Antonio che è frutto delle scelte difficili, che è figlio dell’amore, ritrova così se stesso, la sua identità attraverso Maria. Un amore che vince sempre la partita finale, un amore che conosce la pietà ed il perdono e che và oltre, oltre tutto, oltre il tempo, oltre gli uomini, oltre le cattiverie e le debolezze, oltre le tentazioni, oltre le avversità. Un amore che arriva a comprendere le ragioni altrui, quelle di Maria e quelle di Marta, che spinge ed incoraggia a superare tutto e tutti. Un amore profondo e ritrovato che pronuncia al termine un “io non ti abbandono” che è in fondo la speranza della vita e dell’uomo e che è la ragione stessa di Benedetto il frutto, il suo intimo e sottile messaggio, il suo respiro ed il suo alito.

giovedì 14 ottobre 2010

"Scienza e Verità” di Giovanni Paolo II a cura di Mario Castellana con in appendice scritti di Arcangelo Rossi e Demetrio Ria (Pensa MultiMedia)












Mi sono sempre interrogato se possa essere risolto un problema che penso sia grande quanto è lunga la storia del pensiero scientifico e la storia della Chiesa. Mi riferisco ad un grattacapo intellettuale non da poco, ovvero quello riguardante un’ipotetica soluzione dell’articolato rapporto tra Scienza e Fede. Che siano realmente due universi assolutamente distinti e distanti, i cui contenuti si escludono elidendosi reciprocamente? Possibile che si debba da ambo i lati argomentativi trovarsi dinanzi ad un confine, impossibile da valicare? Ora il pensiero scientifico, e la riflessione sul pensiero scientifico che è propria dell’epistemologia, è ricchissima certamente di una serie di stravolgimenti teorici che fanno ancora parlare di sé. Faccio riferimento a quei fenomeni psico/cosmici destinali per il genere umano che vanno da Galileo, o Copernico, o Isaac Newton sino alla teoria della relatività di Einstein, o all’intransigente scetticismo panico di Piergiogio Odifreddi. Ma senza ombra di dubbio si tratta di manifestazioni teoriche insufficienti vuoi concettualmente vuoi strutturalmente, a superare la dicotomia tra mondo della Fede prettamente astratto, dogmatico, spirituale, a/sistemico, e in/vericabile e il mondo della Scienza, fatto di dati, numeri, quantità, misurabilità, insomma di fenomeni metodologicamente dimostrabili. Ma senza portarla molto per le lunghe, in noi comunque rimarrà quella vocina, la solita vocina del demone socratico o se le vogliamo dare un’aspetto più rassicurante e pop, il solito “grillo parlante” che ci indurrà a farci delle domande del tipo: “Dio ha mai giocato a dadi con l’Universo?” (proprio come Einstein) o ancora “il Caso e il Caos sono i nostri veri genitori adottivi?”. Ma poi rassegnati dal peso di queste domande ( e ci chiediamo se poi veramente utili per pagare le bollette o tirare a campare) ci diciamo sottovoce che porsi ancora interrogativi di natura etico/epistemlogica, ovvero se la Scienza dispone di strumenti ermeneutici tali da rendere plausibilmente chiari i confini tra fenomeno e “noumeno” (ovvero entità di carattere metafisico come direbbe Platone), è assolutamente lezioso. Forse … Esce infatti per Pensa MultiMedia di Lecce a cura di Mario Castellana docente presso l’Università del Salento di Epistemologia e Scienza della Filosofia un libro che non può che suscitare interesse e curiosità. Il titolo è “Scienza e Verità” di Giovanni Paolo II a cura dello stesso Castellana con in appendice scritti di Arcangelo Rossi e Demetrio Ria. Tutto il libro ruota attorno al felice obiettivo di fornire uno spaccato più ampio di un personaggio carismatico, religioso, politico, immenso come lo fu Giovanni Paolo II. Un pontefice che ha dimostrato costantemente come ( a parte la forza ch’egli attingeva dalla sua Fede) il dialogo, il chiedersi sempre come poter migliorare l’oggi e il domani attraverso anche la ricerca scientifica, costruendo magari futuri spiritualmente e tecnologicamente eco/compatibili per l’uomo, poteva essere la strada più idonea per realizzare il “migliore dei mondi possibili”. Forse che avevamo sulla nostra strada un papa epistemologo, e non lo sapevamo? Sicuramente! Intanto Egli guardava alla riflessione scientifica come una strategia di pensiero indispensabile per fornire gli strumenti idonei a capire i “massimi sistemi” e bilanciarne e compenetrarne armoniosamente gli aspetti più acuminati. Dunque questo lavoro è la raccolta per eccellenza, degli interventi sulla scienza all’inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, che si rivela in questo modo un Papa poliedrico che comunque ha considerato la riflessione epistemologica uno strumento utilissimo ad indicare alcune rotte, sia al pensiero scientifico che alla ricerca teologica, per raggiungere quei luoghi deputati a fare i conti con l’esperienza della verità. Questi scritti, che precedono la Fides et Ratio, fanno affiorare una particolare ‘immagine della scienza’ coniugata anche con una vera e propria pastorale della scienza, con cui sia il mondo dei laici che il mondo dei credenti devono confrontarsi per avviare insieme un dialogo di arricchimento reciproco, una volta che si è preso coscienza dei limiti di quelli che Benedetto XVI ha chiamato rispettivi ‘restringimenti ideologici’. (Stefano Donno)

mio intervento pubblicato su Paese Nuovo

mercoledì 13 ottobre 2010

2013. L’alba della nuova era a cura di Enzo Braschi e Giorgio Boccaccia (Verdechiaro edizioni)








Ho appena terminato di leggere con discreto interesse “2012 - L'Ascesa della Terra alla Quinta Dimensione. Messaggi del Maestro Confucio e del Maestro Kuthumi” di Ute Kretzschmar per i tipi di Bis edizioni. Libro stimolante per lasciare le briglie sciolte alla fantasia o ( a seconda dei casi e per via subliminale) ai propri timori per un futuro non sempre plausibilmente “eco-compatibile”. Si tratta di un lavoro che ha una forte componente mistica e che comunque va controtendenza rispetto alle teorie catastrofiste sul 2012 che animano accesi dibattiti un po’ in tutto il mondo. Infatti in base a quanto asserito poco prima, Ute Kretzschmar, l'autrice del volume che stiamo prendendo in considerazione, è in contatto con i Maestri ascesi Confucio e Kuthumi che sostengono che il nostro mondo si sta avvicinando ad un salto evolutivo caratterizzato dal passaggio alla quinta dimensione, che segna il recupero del legame ancestrale con il divino . Ma non è il solo libro che mi sento di consigliare in questa sede. Da poco è uscito per i tipi di Verdechiaro Edizioni un singolare volume a cura di Enzo Braschi e Giorgio Boccaccio dal titolo emblematico, ma almeno rassicurante, di “2013. L’alba della nuova era”. E dunque abituati come siamo a guardare sempre più atterriti al 2012 come una data in cui tutto ciò che conosciamo scomparirà, o perché ci sarà una tempesta solare che riporterà il mondo al medioevo, o perché ci sarà l’inversione dei poli e dunque estinzione in tutti i sensi, o perché torneranno “gli dei” e non sappiamo se siano pro o contro genere umano, quest’opera consegna delle chiavi di lettura alternative e decisamente positive rispetto a tante paranoie “millenaristico/apocalittiche”. I due autori pertanto hanno voluto offrire al pubblico, conoscenze davvero importanti per una comprensione quanto più esaustiva possibile del “fenomeno 2012”. E questo collezionando una serie di voci (11 per la precisione) tra le più autorevoli. Così è stata realizzata questa straordinaria mappa cognitiva sul 2012 che prende in considerazione diluvi universali, terremoti, tempeste solari, bambini Indaco, teschi di cristallo, frequenze vibrazionali sino addirittura all' alimentazione. Il tutto condito da forti legami multidisciplinari che rendono questo prodotto veramente unico nel suo genere. I curatori hanno ritenuto che la cosa più importante non sia tanto ciò che potrebbe accadere nel 2012, quanto piuttosto come potrebbe essere la vita di tutti quanto noi dal 2013 in poi. Questi i “contributors”: Giovanna Battistini, Giorgio Boccaccia, Richard Boyland, Enzo Braschi, Claudio Cannistrà, Fausto Carotenuto, Nikola Duper, Giuseppe, Luigi Esposito, Massimo Fratini, Antonio Giacchetti, Fabrizio Mainetti, Giuliana Roda, Paola Sani

Enzo Braschi - Attore televisivo e cinematografico, dal 1996 prende parte ogni anno alla Danza del Sole (la cerimonia più sacra dei Nativi delle Grandi Pianure del Nord America.

Giorgio Boccaccio - Life communication coach. E' considerato uno dei massimi esperti Europei nel campo della comunicazione personale e dell'arte oratoria. Ricercatore nel campo dei suoni del linguaggio verbale umano, della parola ed esperto di cibernetica, di tematiche connesse alla leadership, team-work e problem solving; ha formato in più di venti anni, moltissime persone a risvegliare il proprio potenziale umano e si sono affidati alla sua consulenza studenti, insegnanti, counsellor, professionisti, uomini dello spettacolo, sportivi, operatori della comunicazione, testate giornalistiche, uffici stampa, venditori, consulenti, enti, oganizzazioni, imprenditori, politici e persone comuni. Nel 2006 esce il suo primo libro: Usa le parole giuste, Ed. Psiche2, Torino Per maggiori informazioni sul suo lavoro visitate il Web Site: www.giorgioboccaccio.com

martedì 12 ottobre 2010

Capatosta di Beppe Lopez (Besa editrice)













Al suo apparire, nel settembre del 2000, il romanzo Capatosta di Beppe Lopez (Mondadori) si impose subito all’attenzione dei lettori e della critica per quattro peculiarità: perché scritto in un linguaggio mai prima di allora usato in letteratura, un idioletto ricavato dall’autore intrecciando italiano parlato e un materiale dialettale – quello pugliese – considerato “minore”; perché ambientato in un mondo mai prima descritto, un Sud né contadino né operaio, né rurale né cittadino, né magico né metropolitano, come sospeso in una fase astorica di inconsapevolezza collettiva e individuale; perché dava voce a una plebe estranea ed estraniata dalla storia e dalla stessa letteratura; perché incentrato su un personaggio forte, memorabile, in assoluto – come è stato detto – “uno dei ritratti femminili più belli della narrativa italiana”.
Il testo di questa edizione – che vede la luce esattamente a dieci anni dalla prima – è frutto di un’attenta rilettura, di revisioni e di correzioni alle quali l’autore ha ritenuto necessario e doveroso sottoporre la stesura “sperimentale” del 2000, restituendoci quello che può già considerarsi un “classico” della narrativa meridionale a una più adeguata altezza di coerenza e accuratezza linguistica.

Beppe Lopez, intellettuale a tutto tondo, ha scritto il suo primo romanzo (Capatosta) nel 2000, dopo un’intera vita dedicata al giornalismo e ai giornali, come cronista politico, inchiestista, direttore di quotidiani e di agenzia, polemista e saggista (Il giornale che non c’è, 1995; Il quotidiano totale, 1998; La casta dei giornali, 2007; Giornali e democrazia, 2009). Il suo secondo, grande romanzo è del 2008: La scordanza. Si è dedicato anche al racconto storico, pubblicando nel 2005 Mascherata Reale (Besa) e nel 2009 Il principe nel groviglio.

domenica 10 ottobre 2010

"Il mio primo omicidio " di Leena Lehtolainen (Fanucci). In anteprima un estratto





















Jyri si svegliò con un atroce bisogno di orinare. In bocca quel sapore acre che in genere ti lasciano whisky, birra, aglio e una serie infinita di sigarette. Si domandò se in casa avrebbe trovato della Fanta. Il mattino dopo una sbornia era quella la sua medicina preferita, se la situazione non era grave al punto da richiedere una birra. La mattina era divinamente bella. Tuulia e Mirja erano sedute in terrazza e s’occupavano della colazione. Tutto quel ciarlare sulle virtù dei vari formaggi lo divertì – in realtà le due donne non si sopportavano. Ma dal momento che una era il miglior soprano e l’altra il miglior contralto dell’ASPROF, l’Associazione degli studenti delle province orientali di Finlandia, erano costrette a fare buon viso a cattiva sorte. Mirja era la perfetta incarnazione del contralto, bruna, rotondetta, tenebrosa. Perfetta per la parte della zingara nel Trovatore di Verdi: come si chiamava poi... la zingara, insomma. Il sole abbagliante lo colpì agli occhi, tanto che il capo gli rintronò. Per sicurezza mandò giù due tachipirine, anche se era convinto di essere ormai immune al trattamento. Fanta non ne trovò, ma c’era succo d’arancia. Il mondo gli si mostrava nel suo splendore più deprimente: il mare scintillava, gabbiani strepitavano vicino al pontile, si annunciava un pomeriggio canicolare. Cantare con quella calura non sarebbe stato tanto facile. «Allora, Jyri, pesante la spranghetta?» fece Tuulia in tono canzonatorio. Anche lei aveva un’aria pallida, di sicuro nessuno aveva dormito granché quella notte. Ma che problema c’era? A lavorare si andava solo l’indomani. «Gli altri dormono ancora?» «Piia è andata a fare un bagno. Altri non ne ho visti. Sarebbe ora che si alzassero, se vogliamo combinare qualcosa.» Mirja lo disse con un tono acido, i poltroni non le garbavano affatto. Il miglior doppio quartetto dell’ASPROF si era radunato nella villa dei genitori di Jukka in vista di un impegno importante, a suo parere, per fare le prove e non per fare baldoria. Tutto qui. Per cui sveglia, un bel caffè in canna, poi sotto coi vocalizzi. Jyri si tirò su. Un bel bagno non sarebbe stato una cattiva idea. L’acqua era sui venti gradi, quel che ci voleva. Si diresse caracollando verso il pontile di legno. Sulla spiaggetta accanto alla sauna scorse Piia, decentemente ricoperta da un bikini. Jyri non se la sentì di andare così lontano, per cui, alla faccia del pudore, giù le brache e oplà, in mare. Anche Jukka era in mare, galleggiava sull’acqua bassa vicino agli scogli. Doveva avere un mal di testa furibondo, almeno a giudicare dal buco enorme che esibiva sul cranio. Per il resto, non aveva l’aria troppo sveglia... Jyri si sentì rivoltare lo stomaco, e precipitarsi a vomitare sulle canne vicino alla riva fu l’unico sollievo. Gli ci volle un paio di minuti per risollevarsi e riuscire a tornare sulla veranda, dove adesso c’era anche altra gente. La sua voce limpida e invidiata di primo tenore non bastò ad articolare chiaramente le parole. «Che diavolo ci fai, così, con le chiappe al vento?» gli fece Tuulia. «Jukka... là, al pontile, oh Cristo... Forse è morto! Annegato!» «Ma di che cazzo parli?» Antti si precipitò verso la riva, Mirja gli corse dietro. Un attimo, e la donna tornò indietro per fiondarsi sul telefono. I numeri delle emergenze erano nitidamente riportati accanto all’apparecchio. Dalla terrazza udirono la sua profonda voce di contralto rivolgersi affannata alla polizia, e solo dopo cercare un’ambulanza.Dove mai ti trascina la corrente? Ero sotto la doccia, impegnata a sciacquare via il sale dalla pelle, quando il telefono squillò. Sentii il mio annuncio nella segreteria, poi la voce di un collega che mi chiedeva di richiamare al più presto. Il riposo domenicale era durato, con mia sorpresa, più del previsto, ma non ero riuscita a rilassarmi, nemmeno sulla spiaggia. Per qualche motivo m’ero sentita in dovere di trascorrere la prima bella giornata libera dell’estate a indorarmi al sole, sebbene detestassi fare vita di spiaggia. Per tutto l’inverno avevo frequentato assiduamente la palestra, ragion per cui il mio fisico era presentabile come non accadeva da anni. A parte qualche cuscinetto di cui non mi sarei mai sbarazzata, visto il ritmo con cui mandavo giù le birre. Interruppi la segreteria e composi il numero del commissariato. Il centralino mi passò Rane. «Ciao, bellezza! Tra un quarto d’ora sarò davanti a casa tua. Ho già impacchettato tutto. C’è un cadavere a Vuosaari, una pattuglia ce l’ha segnalato una mezz’oretta fa. Serve niente dal tuo ufficio? Arrivo! Si riparte, mi dissi, mentre cercavo nell’armadio qualcosa di presentabile da indossare. La gonna della divisa l’avevo lasciata in ufficio, a Pasila, sicché dovevo ricorrere ai miei jeans più decenti. I capelli erano bagnati, ma il fon non avrebbe fatto altro che scarruffare la mia zazzera rossiccia. Mi sforzai di stendere una specie di trucco sulla faccia arrossata, e feci un paio di smorfie nello specchio. L’immagine che mi rimandava era tutt’altro che quella di una rispettabile poliziotta: gli occhi verdognoli sembravano presi a prestito da un gatto, riccioli stopposi e ribelli con riflessi rossastri accentuati dalla tintura («il segreto chi lo sa, solo io e Melody...»). Il tratto che in me destava l’impressione più irriverente era il nasino all’insù che il sole aveva picchiettato di lentiggini. La mia bocca qualcuno l’aveva definita sensuale, il che significava, in soldoni, che avevo il labbro inferiore accentuato. Era proprio questo donnino, adesso, con l’aria di una mocciosetta, che doveva andare a far rispettare la legge e l’ordine là in fondo all’estremo lembo di Vuosaari? La sirena di Rane si fece sentire da lontano. Lui adorava farla andare a tutto volume, come metà dei poliziotti finlandesi.I morti non c’era rischio che se la filassero, ma questo la gente non era tenuta a saperlo

sabato 9 ottobre 2010

"Nero. Autobiografia di un neonazista guarito" di Frank Meeink e Jody M. Roy (Piemme)









«Noi non siamo nemici, ma amici. Noi non dobbiamo essere nemici. Possiamo essere stati tesi dalle nostre passioni, ma ciò non deve rompere i nostri legami d'affetto. Le corde mistiche della memoria suoneranno se toccate ancora, come sicuramente saranno, dai migliori angeli della nostra natura.». Era il 1988. Lo ricordo come se fosse ieri. Al cinema danno “American History X” un film del 1998 diretto da Tony Kaye. La pellicola è dedicata al tema del razzismo nazi e xenofobo negli Stati Uniti. American History X lo vado a vedere di nascosto dai miei. Ci rimango sotto. Ci rimango sotto a Derek che, dopo aver trascorso tre anni in gatta buia per aver ucciso un ragazzo di colore che stava tentando di rubargli l'auto (skinhead con tanto di svastica tatuata sul petto e camera arredata con cimeli nazisti), si dà da fare in atti di violenza e vandalismo e fa parte di una locale organizzazione di giovani neonazisti che viene finanziata da Cameron Alexander, proprietario di una casa editrice che pubblica libri propagandistici e dischi di gruppi musicali che inneggiano alla supremazia bianca. E ci rimango sotto anche a un libro che è uscito in questi giorni dal titolo “Nero. Autobiografia di un neonazista guarito” di Frank Meeink e Jody M. Roy edito da Piemme. In parole povere la storia di Frank Meeink di padre italiano e madre irlandese la cui vita è fatta sin dall’inizio di disordine e violenza. Che cosa ne può nascere se non un essere umano che cresce di odio in odio verso tutto e tutti, con una voce che si ripete giorno e notte, notte e giorno: “Io non sono negro!”. Già perché per Frank non essere “negro” vuol dire vincere sulla parte più vulnerabile di se stessi, quella più bisognosa d’aiuto, che rimane nell’ombra, nell’oscurità, dove tutto è “nero”!. Frank viene sbattuto fuori di casa alla veneranda età di 13 anni, passa da un affidamento all’altro sino al carcere, epilogo naturale e totale della sua vita. Poi il cameratismo, degli skinhead. Assorbe come una spugna e manda giù, tesi deliranti sulla razza ariana, sugli ebrei e il loro complotto giudaico-massonico, sui «negri». Festeggia addirittura il compleanno di Hitler, si fa tatuare una svastica sul collo, si esalta in una spirale di violenza e assurdità, tra cui pestaggi a barboni, gay, a tutti i «diversi». Frank è uno che a sedici anni diventa leader di una delle più famigerate gang di naziskin. Poi il Ku Klux Klan. E diventa un mito. In carcere poi, dovunque vada, qualcuno legato al mondo nazi lo protegge dai rischi peggiori. Ma Frank scopre in carcere che le battute razziste non fanno più ridere come prima e questo è già indice di tradimento. Libro terribile, ma nello stesso tempo da non perdere soprattutto perché ci insegna a capire da un punto di vista socio/culturale la temperatura psicologica di una parte malata d’America che a tutt’oggi sembra comunque godere di ottima salute!. (stefano donno)

«Il mattino del 19 aprile 1995 mi infilai in una gastronomia, presi un panino preconfezionato e andai alla cassa. Il commesso era incollato a un piccolo televisore sistemato dietro il banco. «Cosa succede?» domandai. «Hanno fatto saltare in aria un edificio.» «Sul serio? Dove?» «Oklahoma City.». Poco dopo l’esplosione tutto il mondo era davanti al televisore. Perfino io e gli altri spacciatori abbandonammo il nostro angolo fra Second e Porter per seguire quello che era accaduto. Ci ammucchiammo in una stanza di una malandata villetta a schiera di South Philly. » (estratto dal libro)

giovedì 7 ottobre 2010

Il bacio del gronco di Gilles Del Pappas (Edizioni Controluce)












Cominciamo dalla fine. Ho smesso di fumare. Sono 9 mesi. La fame chimica adesso ce l’ho nel leggere i libri che autori ed editori mi mandano. Non so che virus ho preso o qualcuno mi ha “innestato” un’idea latente che mi ha fatto diventare ciò che sono ora. Li divoro, li digerisco e poi una strana frenesia che parte dalla punta di piedi e arriva alle sinapsi si impossessa di me. Comincia poi a salire la temperatura della scrittura, ho voglia di parlare dei libri che leggo, ne ho voglia di scrivere, e di consigliarli, consigliarveli. E questo non posso proprio non consigliarvelo, e lo fa uno che di noir ne sa poco ma ama leggerlo. Come mi ha sedotto “Duri a Marsiglia” di Giancarlo Fusco uscito qualche anno fa per Einaudi Stile Libero con la cura di Tommaso De Lorenzis, ora la fascinazione mi ha preso per un altro libro, a dir poco stupendo. Parlo del “Bacio del Gronco” di Gilles Del Pappas edito dalle Edizioni Controluce. Per la prima volta pubblicato in Italia. Per la prima volta nel nostro paese si inaugurano editorialmente le avventure di Costantin il Greco. Personaggio molto obliquo! Soundtrack consigliato “Wrong” dei Depeche Mode. Se avete lo stomaco forte, e amate una tipologia di scrittura che vi fa respirare l’odore mefitico di una bettola, che vi stringe la gola in una morsa d’acciaio per quanto satura di fuoco e nicotina, che vi fa pensare che non avete mai visto abbastanza del lerciume di questo mondo, allora questo libro fa per voi. Siamo ancora nella splendida Marsiglia “nuda e cruda” con tanto di omicidi e poliziotti corrotti , dove Fefé e Costantin sbattono a muso duro sulle curve della “pulcherrima” e inaspettata Juliette, donna sensuale, carnosa, bellissima in una parola, che devasterà il loro concetto e limite di normalità. Perché questo libro vi entri nel sangue è anche inutile che continui. Ma voglio dirvi ciò che si insinua tra queste pagine parlandovi del protagonista del titolo … il gronco, per l’appunto! Pesce crepuscolare, nero, con occhi tondi molto voluminosi, con una grande apertura buccale, una sola fessura branchiale, assenza di pinna pettorale e di scaglie. Il suo sangue contiene una tossina che all’uomo può “spaccargli il cervello” . Questo vi basti. Ora andate pure in libreria!

Gilles Del Pappas nasce nel 1949 a Marsiglia da p...adre greco e madre italiana. Regista e fotografo, ha scritto dodici romanzi. “Il bacio del gronco”, con cui ha vinto il “Prix du polar lycéen d’Aubusson” è il suo primo romanzo, pubblicato nel 1998 e ora tradotto per la prima volta in italiano. In pochi anni Gilles Del Pappas è diventato uno degli autori di ‘polar’ più emblematici del Mediterraneo, un genere di romanzi e film dalle note cupe ed introspettive caratteristiche del noir. Nel 2002 Del Pappas ha vinto il “Grand prix littéraire de Provence” per l’insieme della sua opera.

(stefano donno)

martedì 5 ottobre 2010

Un amore perfetto di Howard Jacobson. In libreria dal 13 ottobre per l'ancora del mediterraneo





















Scarno, ossessivo, risoluto, racconta il tormento sessuale in maniera formidabile. (Harold Pinter) Felix Quinn è un apprezzato libraio antiquario affetto da una strana malattia: il mal d’amore. Come se non bastasse, il sesso per lui è tutto. Per Felix che si reputa ipersensibile, dolce e delicato con le donne, incompreso e non corrisposto, l’amore e il sesso sono sempre stati un tormento: pronto a offrire il suo cuore ancor prima che ci sia qualcuna cui darlo, si dispera che nessuna sia disposta a riceverlo. Come dargli torto: la sua prima ragazza lo tradì la seconda volta che la portò fuori. Dal cinema dove erano entrati lei se ne uscì con un altro. Ma la sua malattia è aggravata da un’ansiosa, irrefrenabile e, come è ovvio, immotivata gelosia. «Si ama per perdere» ritiene «e più si ama più si perde. La paura e la gelosia non sono semplici corollari dell’amore, sono l’amore stesso». I guai veri però cominciano quando sposa Marisa, donna bellissima e affascinante che in materia di sesso non si scandalizza di nulla. Il loro è un amore perfetto: eccolo vivere felicemente schiavo d’amore. Ma non tutto va liscio, perché ad ossessionarlo ci sono la gelosia e il tarlo del tradimento. «La ferita del dubbio nella quale vivevo non era frutto della mia mente instabile, ma rispondeva a una ben precisa realtà: i dolorosi e irriferibili tradimenti di Marisa. Quando l’accusavo di essermi infedele, credevo a lei, pur sapendo che mentiva. Adesso non più. Adesso Marisa mi sarebbe stata infedele sul serio». Come fa a esserne così sicuro? Perché è lui stesso a servirle su un piatto d’argento l’amante perfetto, Marius, un fiore del male, un libertino capace di persuadere una donna a lasciarsi andare alla più sfrenata lussuria, contro ogni buonsenso e coscienza. Così Felix scopre l’eccitante fascino della lussuria, al punto da elaborare un piano che lo porterà alla più bassa perversione carnale: «Il bello di un patto osceno è che tutti ne ricavano qualcosa. La moglie, l’amante, il marito». E questo è solo l’inizio di un lungo viaggio nella mente e nelle trame sessuali e amorose in cui ci trascinerà – tra sedute di sesso a pagamento, voyeurismo, club privé dove provare le emozioni più strane e le eccitazioni più impensate – un raffinato e insospettabile libraio antiquario della City con i suoi altrettanto insospettabili complici. Un romanzo sull’amore e sul sesso. E sulla paura degli uomini verso ciò che rappresenta per loro il più grande mistero: la donna.

Scrittore, saggista, giornalista, Howard Jacobson è nato a Manchester nel 1942. Collabora come editorialista per «Independent» e ha realizzato documentari per Channel 4. Nella Biblioteca di Cargo sono stati pubblicati: Kalooki Nights e L’imbattibile Walzer. È tra i finalisti del Man Booker Prize del 2010.
Prime 38 pagine del libro di
Howard Jacobson, Un amore perfetto, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Cargo, 13 ottobre 2010

lunedì 4 ottobre 2010

Il giorno della Iena di Stefano Lorefice edito da Eumeswil




















Stefano Lorefice classe 1977, non è alla prima esperienza editoriale e lo si vede. Ha una bibliografia discreta se si pensa che ha già alcune pubblicazioni sulle sue spalle e anche con marchi editoriali di tutto rispetto. Penso a “Cosmo blues Hotel” e Budapest Swing Lovers” (Edizioni Clandestine), “Prossima fermata Nostalgiaplatz” (Clinamen), e “L’esperienza della pioggia” (Campanotto). Ora questo suo ultimo lavoro esce per le splendide edizioni Eumeswil, ed ha per titolo “Il giorno della Iena”. Ribadisco splendide per la cura dell’intera veste editoriale e per la scelta della grammatura della carta che rendono il tutto un “pacchetto” niente male. Le prime pagine traggono in inganno: già perché il tutto (e anche la copertina) lascerebbero presagire che si tratti di un noir. Sinceramente ritengo che questo lavoro non appartenga al genere in questione per una serie di aspetti su cui non mi dilungherò troppo ma che è bene sottolineare. Sembra che l’autore racconti delle vicende che molto hanno a che spartire col noir, anche se poi vi sia una volontà sotterranea che desideri tendere la struttura intera della narrazione verso qualcosa di più metafisico e onirico. Mi spiego meglio! La serie di personaggi che Lorefice descrive tra le pagine de “il giorno della Iena” sono estremi nel loro essere per la storia, quasi pulp, ma nessuno riceve una marcatura profonda che lo caratterizza psicologicamente e tutto pare rimanere allo stato d’ombra. E questo non è un difetto semmai un pregio di un raccontare storie che (secondo l’io narrante) debbono rimanere come semi nascoste da un velo, perché la nostra risposta emotiva sarebbe devastante. A rigor di logica poi, e questo denota una simmetria architettonica nel plot, anche il finale sembra tracciato sommariamente, perché non deve risultare definitiva. La vicenda o meglio le vicende, vedono come comparse un’omicida col colletto bianco, una ballerina parigina, un uomo-pillola, un angelo custode vestito di nero, uno scrittore di testi per emittenti radiofoniche e qualche altro fantasma che il lettore scoprirà pagina dopo pagina. Bel libro, e mi sento di consigliarlo caldamente perché non risparmia forti emozioni con una scrittura forte e decisa. In tutta questa dimensione umbratile consiglio le scenette esilaranti di Lomo, l’uomo-pillola ( un inetto a tutto tondo) con il suo sogno di andare a Londra e una laurea che sembra non arrivare mai. (stefano donno)

domenica 3 ottobre 2010

10 libri più letti settembre 2010 - Classifica

Apre le scuola, si rientra al lavoro e si ha come l’impressione che scatti il "via" alle imprese da compiere. Settembre pare sempre un nuovo anno!
Nel nostro caso il “nuovo anno” è iniziato con la scoperta di un libro del 2009.
A settembre i lettori di 10 righe dai libri hanno infatti apprezzato in particolare il romanzo epico di Gabriele Marconi LE STELLE DANZANTI. IL ROMANZO DELL’IMPRESA FIUMANA: secondo in classifica nei mesi luglio-agosto è a settembre il libro primo in classifica tra gli incipit più letti.
Per non smentirci tra i capitolo più scaricati all’insegna del “nuovo anno” troviamo Vincere senza combattere, saggio novità di Pierre Fayard.
Ci avviciniamo pian piano a ottobre, il mese del Fantasy che raggiunge il suo apice a Lucca Comics and Games 2010, il più grande Festival italiano nonché tra i primi in Europa, dedicato al fumetto, al gioco e all’illustrazione (29 ottobre al 1 novembre), e… i nostri lettori si stanno preparando per affrontarlo al meglio. Le streghe moderne di Francesco Falconi, volitive e appassionate restano così in classifica al secondo posto con L'aurora delle Streghe - underdust. Subito a seguire abbiamo 2 nuovi libri in entrata: Dark Visions - La passione, di Lisa Jane Smith, che chiude la trilogia per ragazzi, e Nemesis - L’Ordine dell’Apocalisse nuovo libro di Francesco Falconi. L’autore è atteso a Lucca da tantissimi fan che lo seguono da anni.
Gli altri libri nuovi entrati in classifica, Mia figlia follia di Savina di Dolores Massa, Vita e morte di un giovane impostore scritta da me, il suo migliore amico di Cristiano de Majo, Storie bastarde di Davide Desario e 101 modi per addormentare il tuo bambino di Martina Rinaldi, fanno compagnia alla giovane Marta Dionisio, Lo specchio di Beatrice , ora circondata da Il Mangianomi di Giovanni De Feo e Il sentiero di legno e sangue di Luca Tarenzi.
Promesso promesso, finisco e vi lascio alla classifica completa. Prima però una nota di merito per il libro scritto da Giovanni De Feo, IL MANGIANOMI, in classifica da ben 6 mesi e per il saggio di Giorgio Nardone, GLI ERRORI DELLE DONNE (IN AMORE), da 4 mesi primo in classifica tra i primi capitoli più letti. Per lettori che amano i mezzi a 2 ruote: state tranquilli, Ted Simon con I viaggi di Jupiter, Giò Pozzo e Adriano Maccarana con La macchina perfetta, continuano a viaggiare!
:)

Di seguito la classifica degl’incipit più letti a settembre:

1) ----------
Gabriele Marconi, LE STELLE DANZANTI. IL ROMANZO DELL’IMPRESA FIUMANA, Vallecchi, 2009
- Link per leggere le prime 32 pagine del libro
http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/stelle-danzanti-romanzo-dellimpresa-fiumana



2) ----------
Francesco Falconi, L’aurora delle Streghe. Underdust, Reverdito Editore, 21 luglio 2010
- link per leggere i primi 4 capitoli del libro
http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/laurora-delle-streghe-underdust



3) ----------
Lisa Jane Smith, Dark visions - La passione, traduzione di Daniela Di Falco, Newton Compton, 9 settembre 2010
- link per leggere il primi 2 capitoli del libro
http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/dark-visions-passione



4) ----------
Francesco Falconi, Nemesis - L’Ordine dell’Apocalisse, Castelvecchi Editore, 29 settembre 2010
- link per leggere il primi 2 capitoli del libro
http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/nemesis-l%E2%80%99ordine-dell%E2%80%99apocalisse


5) ----------
Giorgio Nardone, Gli errori delle donne (in amore), Ponte alle Grazie, 6 maggio 2010
- link per leggere il primo capitolo del libro
http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/errori-delle-donne-amore



6) ----------
Giò Pozzo - Adriano Maccarana, La macchina perfetta - Teoria, pratica e storie della bicicletta, Il Saggiatore, 30 aprile 2010
- link per leggere le prime 33 pagine del libro
http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/macchina-perfetta-teoria-pratica-e-storie-della-bicicletta



7) ----------
Giovanni De Feo, Il Mangianomi, Salani Editore, 31 marzo 2010
- link per leggere le prime 170 pagine del libro
http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/mangianomi

8) ----------
Marta Dionisio, Lo specchio di Beatrice, Fazi Editore, 9 luglio 2010
- link per leggere le prime 50 pagine del libro
http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/specchio-beatrice



9) ----------
Luca Tarenzi, Il sentiero di legno e sangue, Asengard Edizioni, 24 maggio 2010
- link per leggere le prime 69 pagine del libro
http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/sentiero-legno-e-sangue


10) ---------- parità
Savina Dolores Massa, Mia figlia follia, Il Maestrale, 8 settembre 2010
- link per leggere il primo capitolo del libro
http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/mia-figlia-follia

sabato 2 ottobre 2010

MAHAYAVAN-RACCONTI DELLE TERRE DIVISE. Intervento di Alessia e Michela Orlando












Come si amano gli abitanti di Mahayavan? Quali sensibilità si scambiano? Come previsto, è stata appena pubblicata l’antologia Mahayavan-racconti delle terre divise. Abbiamo già letto i due racconti che precedono il nostro, IL FIGLIO DEL FUOCO, trovandoli straordinariamente belli. Con soddisfazione abbiamo anche individuato strane, oseremmo dire magiche, concordanze. Si tratta dei racconti di Stefano di Marino, LO SPADACCINO CON UN BRACCIO SOLO, e di Fabio Calabrese, IL TRONO DI LLOGRA. La soddisfazione va contenuta, per non incorrere nel peccato di eccessiva felicità, considerando l’importanza dei due nomi. Naturalmente ci riserviamo di riparlarne in altra sede, quando avremo letto tutti gli altri racconti. Ci limitiamo, pertanto, a dire qualcosa del nostro racconto; anzi, a porci una domanda: che accade nella città di Lu-Sinh quando, finalmente, un capo guerriero si ricongiunge con la propria compagna, dopo aver affrontato vicende sconvolgenti? La loro vicinanza scatena reazioni diverse da quelle vissute dai terrestri dopo una lunga lontananza? Come si amano gli abitanti di Mahayavan? Quali sensibilità si scambiano?

Dal nostro racconto IL FIGLIO DEL FUOCO, pagine 50-51:

“Antefatto. Finalmente, dopo una avventura incredibilmente suggestiva, Isy-Tdhor Maha-Ria, lo scienziato e Comandante dell’Esercito Stabile della capitale Lu-Sinh, ritorna alla sua città. È atteso dal popolo in festa e dalla compagna Vy-Gya-Thy-davy. Giunge a casa e … I due oggetti del desiderio reciproco si accostano sempre più, assaporando insieme la Pinh-Za-re, ognuno dalle mani dell’altro; poi si unificano in un abbraccio, fatto di scambio potente di energie senza movimenti e scambio delle pulsazioni ancestrali, attivate dall’accelerazione di ogni particella dei corpi-contenitori. (…) Lo sguardo di Isy-Tdhor Maha-Ria è fisso sul fianco perfetto della compagna. Gli occhi stanno per chiudersi. All’improvviso qualcosa ravviva l’attenzione di Vy-Gya-Thy-davy, come se un inatteso pensiero percorresse la mente, segnandola di lieve dolore. La reazione del corpo è contenuta nella appena accennata agitazione del profilo dei seni. Al Comandante basta per capire che sta per girarsi, che intende parlargli, che ha da chiedergli qualcosa. «Cosa ti turba, vibrazione estasiante del mio tempo? Cosa mi nascondi, riflesso dorato del mio mondo? Quale fardello non riesci a scaricare , mio unico suono desiderato? Darei tutti i Pan prodotti dalla nostra zecca dalla notte dei tempi, tutto l’oro e l’argento estratti nelle miniere della Terra di Mahayavan e l’energia occorrente per far vivere tutto ciò che ci circonda, quindi darei la vita per poter essere messa a parte di quell’unico pensiero che ti ha distratto per un attimo…». «No, nella mia mente l’orizzonte è stato piatto, ho sempre e soltanto immaginato una linea perfetta a trecentosessanta gradi tutto attorno a noi. Non mi ha turbato nulla, e quella monotonia mi ha dato modo di consegnarmi integralmente a te. Così ho potuto darti tutto, tutta l’energia che possedevo, come ho sempre fatto.»

«No, no, mio Comandante, non c’eri tutto nel mio grembo, non mi hai dato tutte le vibrazioni, non hai intercettato pienamente con la tua energia esplosiva il mio punto Dagy-Gy. Alla tua carica vitale hai sottratto una infinitesima parte, ma è accaduto. Ricordi quando mi spiegasti l’intensità della luce del nostro sole? Ricordi che non capivo quelle misure assurdamente piccole per dimostrare l’esistenza di spazi infiniti? Ebbene, utilizzasti un granello di sabbia come esempio. Dicesti che uno sottratto alla nostra rara sabbia d’oro, misura circa duecentocinquanta micron e che le particelle di luce sono molto meno. Ebbene, l’energia che mi hai sottratto è ancora meno, ma l’ho sentita, e mi resta quel senso di vuoto incolmabile.» Isy-Tdhor Maha-Ria, colpito dalla determinazione e dalla delicatezza delle parole di Vy-Gya-Thy-davy, la fissa e si lascia andare. «Ti dirò cose che dovrei spiegare, ma che neppure io sento di dominare. Avverto la sensazione di un nuovo organo impiantato in una zona del corpo ignota, senza poterlo scrutare, analizzare. Avverto la sensazione di un dondolio, come di onde del mare mosse ritmicamente, senza la possibilità di modificare la velocità; è una situazione mai vissuta prima. Sento rumori che non hanno età, come fossero da sempre e per sempre identici. Intuisco desideri che non ho mai avuto e che non so descrivere. Vorrei essere su una spiaggia, scavare, sentire la diversa temperatura man mano che affondo le mani, raccogliere la sabbia, e costruire un castello. Ma non so per chi e che senso abbia farlo. Per questa incapacità di capire vorrei perdermi in un riflesso di indaco e lasciarmi trasportare fino ai margini del mondo che vediamo. Forse da lì potrei avere la visuale giusta, potrei svelare il mio mistero.» Vy-Gya-Thy-davy abbassa lo sguardo, scuote la testa e torna a guardarlo negli occhi. «No, mio Comandante, non hai mai parlato così, non dici il vero.» Stavolta Isy-Tdhor Maha-Ria è ferito. Attira la compagna a sé. «Hai ragione. Ho paura. Ma per vivide sensazioni che non ho mai provato. In realtà vorrei fuggire trasportato da un riflesso di indaco. Io vedo il mio corpo sommerso in un liquido, eppure sto bene; poi lo sento spinto da una violenta massa liquida attraverso una grotta strettissima; lo vedo eruttato in uno spazio infinito, tra grida di dolore, e lo vedo affogare nel vuoto, dove dovrei invece stare bene. Infine mi ritrovo sotto una massa incandescente, un fuoco incombente e una forza improvvisa che mi strappa. Ma non sento gioia e piacere per la conseguita salvezza. Io muoio in quel momento.»

«Sì, adesso dici il vero. Anche stavolta sono costretta a dirti che non hai mai parlato così. Ma dici il vero. Non dovresti più aver paura: sei a casa tua, con la tua compagna, con il tuo popolo e con il tuo reggimento vicini. Nessuno è più al sicuro di te (…).»

Edizioni Scudo - http://www.innovari.it/mah.htm