Non ci sono che montagne a perdita d’occhio intorno al remoto villaggio dove la vecchia Orin vive con il figlio Tatsuhei e i quattro nipoti. Un villaggio primordiale, soggetto alla legge implacabile della sopravvivenza, e insieme immobilizzato nel tempo inafferrabile di favole e leggende, dove riecheggiano ballate dai versi poetici e crudeli. E quando in famiglia si aggiungono due bocche da sfamare – la nuova moglie di Tatsuhei e quella di Kesakichi, il più grande dei nipoti –, e si approssima il traguardo dei settant’anni, un solo, gioioso pensiero occupa la mente di Orin, da sempre abituata a pensare agli altri prima che a se stessa: prepararsi degnamente per il pellegrinaggio al Narayama, la lontana montagna dove abita un dio. Lì il figlio, dopo averla portata sulle spalle sino in cima, la abbandonerà al suo destino, come vogliono norme ancestrali, atroci ai nostri occhi eppure serenamente accettate. E mentre seguiremo la silenziosa ascesa di Orin e Tatsuhei, fra valli che paiono abissi senza fondo e vette dove i corvi volteggiano sul candore delle ossa, non potremo fare a meno di chiederci se questo romanzo aspro e lacerante, caduto come un meteorite nella letteratura giapponese degli anni Cinquanta, sia davvero il frutto dell’invenzione di un outsider – o non scaturisca piuttosto dagli strati più profondi del nostro inconscio.
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