"Ogni paese appartiene a chi ci è nato. Gli altri possono entrare,
ma a una condizione: restare al proprio posto. E rinunciare a se
stessi."
Alla fine degli anni ottanta, quando la sua famiglia
decise di fuggire dall'Iran in guerra, Dina Nayeri era una bambina. Il
rumore delle bombe, le sirene e le corse per nascondersi nel
seminterrato, la poca luce filtrata dalle finestre serrate erano tutte
cose normali. Negli anni a venire, sui letti a castello delle case per i
rifugiati di Londra, di Dubai, di Roma, poi dell'Oklahoma, Dina conobbe
per la prima volta il silenzio del sonno tranquillo e ininterrotto:
quella fu la sua prima idea di cosa fosse la pace. Sua madre le diceva
di pregare e di essere grata. Sui migranti sono state scritte molte
storie. A partire dall'Eneide, l'esperienza di chi è costretto a fuggire
non ha mai smesso di essere all'origine di narrazioni impetuose,
grandi, travolgenti. Storie di singoli individui, soli contro la perdita
di tutto, storie che sono universali. Dopo un clamoroso reportage
uscito sul "Guardian", The Ungrateful Refugee, Dina Nayeri si misura con
la domanda più impietosa del nostro tempo: che cosa significa essere un
migrante? E soprattutto: cosa succede quando chi fugge diventa un
rifugiato? Qual è il prezzo della sua integrazione? La risposta è
semplice. La prima regola per il rifugiato è rimanere al proprio posto.
Essere meno capace, avere meno esigenze degli altri. Accontentarsi e
ringraziare per l'accoglienza, accettando il destino di un terribile
circolo vizioso: sei un pigro richiedente asilo, finché non diventi un
intruso avido. Grazie alla propria esperienza, una scrittrice esplora
come vive chi è costretto a fuggire, come si declina il rifiuto delle
comunità di approdo, e indaga la tragedia dello straniamento
dell'identità che tutti i giorni avviene sotto i nostri occhi.
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