E' sicuramente un caso che
abbiamo letto il nuovo sublime romanzo d'Andrea Di Consoli, "La
collera", nei giorni della morte del poeta post-novecentesco del
Novecento, Roberto Roversi e mentre sentivamo ancora la presenza del Damìn del
Volponi del "Lanciatore di giavellotto" (non ci crederete, comunque
solamente dopo aver scritto queste righe abbiam incrociato la notarella di
Paris) e quando un'altra idea di Mezzogiorno è proposta e riproposta, per
esempio, dal paesologo Arminio. Però tutto questo, sicuramente, in qualche
maniera ha a che fare con il libro di Di Consoli. Fra fenomenologia
dell'emigrazione, prima del concetto stesso di 'migrazioni', proprio quindi
niente a che vedere col De Luca, racconto dell'allontanamento dalle origini e
illustrazione crudele del cordone ombellicale attaccato da ovunque e sempre
alle origini, Pasquale Benassìa è l'estraniato. Un personaggio che divora chi
legge, certo, ma di facile analisi. Perché, innanzitutto, per quanto il
protagonista della Collera abbia la maschera del forza originale che vien dal
Sud senza voler quelle compromissioni della maggioranza silenziosa e
"catarrosa" del Meridione, lo stereotipo voluto dal poeta nato a
Zurigo e di discendenza della Rotonda di Lucania è rintracciabile viaggiando
nei tempi e nei modi di Calabria, Basilicata, Puglia. Ché il narratore fa del
suo manichino una figura da teatro della realtà. Ne conosciamo, dunque, di
fascisti sui generis. Posizionati e rintanati nei paesi. Tipo dopo aver subito
una sonora sconfitta: vedi, appunto, il dramma del rancoroso Benassià. Insomma
Pasquale Benassìa dice d'odiare infinitamente la sua terra, le Calabrie e il
Paese dei Mori. Tutto il Sud di "mendicanti, miserabili e
vigliacchi". D'asserviti al potere di turno. Quando i comunisti e i
sindacalisti son vissuti alla stregua del male peggiore che possa esistere e il
potere del Mancini della Calabrie e d'altri socialisti in forma di potere che
compre e corrompe. La famiglia di Pasquale è una famiglia di pastori. Pasquale,
invece, rifiuta il contatto diretto con la terra e insieme ai suoi pacchetti di
sigarette prova a varcare la soglia della Fiat di Valletta e Agnelli. Eppure
son gli anni Settanta. Eppur la politicizzazione, specie di sinistra, della
fabbrica è forte. Eppure l'operaio Benassìa non pensa che a studiare, da
autodidatta puro, i pensatori che fortemente gli piacciono e a faticare senza
catapultarsi negli scioperi rossi. Tanto da entrare, per dire, nelle grazie
d'un capetto che rappresenta in faccia a Benassìa il nobile Nord dei buoni di
spirito e ultima ricaduta del lascito delle monarchie da lui tanto vantate e
sperate. Fino a quando tra l'incontro col capo-turno e una maestrina di Rivoli
si mette una giovane siciliana che fa sentire la furia del suo corpo
appassionato e appassionante. Una rovina, in pratica, per il Benassìa
integerrimo - che dall'impatto con la forza vera del sesso è messo all'angolo.
Quanto, ovviamente, dalle conseguenze, che non starem di certo qui a riportare,
della dipartita improssiva della giovine. Sta di fatto che l'estraniato, certo
inconsapevolmente, si trova costretto a fuggire. A tornare in Patria. A
riprendere i favori che stanno ad attendere, è chiaro, dove l'erba trema.
Perché lo Stato, come a lui stesso è dimostrato, non tutela e non protegge; le
autorità non sono forti. Il lirismo di Di Consoli si palesa dove le prove del
"tramonto da bestia macellata" abbracciano la rivolta sostanzialmente
interiore di Pasquale Benassìa. Quasi celato, il lirismo. E questo scarto della
società, Benessìa, non può che farsi annegare dal narratore onniscente che
possiede trama e vocazione dell'opera (per questo il poetico è più in ombra).
Quarant'anni or sono, pare dirci Andrea Di Consoli, stavamo quasi come oggi.
L'Italia e il Sud sono posti massacrati da tanti mali. Qui un Benassìa, tra
macchinette mangiasoldi e solitudine che il fascista fiero invoca quale valore
aggiunto, deve per forza soccombere. L'autore, furioso polemista, nel suo
personaggio carica tutta la rabbia e la disperazione che è possibile sentire.
Per questo Pasquale Benassìa ci sbrana. Mettendo in ridicolo, tra l'altro,
persino le figure più importanti che galleggiano nell'ambientazione del romanzo.
Il confronto con la potenza del protagonista, su tutto, manco è retto dal dott.
Anile o dai vari padroni socialisti di sottofondo. Lo scrittore, ancora una
volta diversamente dall'indimenticabile romanzo d'esordio, "Il padre degli
animali", si fa dare il destino dal suo Meridione.
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