Sulla strada per Leobschütz di Daniele Santoro, docente e
critico letterario, si affronta adottando il linguaggio della poesia - “la casa
dell’essere” (M. HEIDEGGER) - un tema
drammatico della storia: i campi di concentramento e l’olocausto nel periodo
del nazismo. Di questi lunghi e tragici anni compresi tra le
due guerre mondiali, nessun uomo deve e può dimenticare. Come lo Zarathustra, Daniele Santoro
ripercorre quelle tappe servendosi di documenti, fonti cercate con lavoro
certosino e attento, animato da una volontà di potenza. Sembra infatti come se
volesse ad ogni modo imporre la sua forza, animosità di pensiero su ogni
lettore perchè ricordi il passato, ricordi parte della storia, nella quale a
causa di menti folli sono state compiute azioni disumane, che nulla hanno a che
fare con l’essere umano. Non si può dire che sia insolito scrivere in poesia la
storia, come appare azzardato banalizzare il modo di fare poesia oggi. Tuttavia molti hanno scritto e poetato sui
campi di sterminio, come Salvatore Quasimodo, o Primo Levi che nei suoi libri narra
la dura sopravvivenza di deportato ad Auschwitz nel 1944 e sopravvissuto
avverte il bisogno di scrivere e lasciare una testimonianza nei versi in cui
raccomanda e comanda nell’incipit di Se questo è un uomo: «Voi che siete sicuri
nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo [...]
scolpite nel cuore queste parole, ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia
la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi». Analogamente Santoro intende riportare all’attenzione
ogni lettore “se questa è una vita degna di essere vissuta”, una vita per la
quale Camus si chiederebbe “se ne vale la pena di vivere”, una vita senza
dignità che uomini, donne, bambini, anziani deportati, erano costretti a
subire. Leggiamo così nei versi: «voi
non sapete un uomo che significhi / sfinito, sfilare nudo a passo militare / il
piede congelato nel suo zoccolo di legno / malgrado la diarrea gli coli per le
cosce / ... / sfilare invece,
addirittura correre / quando sarà il tuo turno, non dimenticare / di togliersi
il berretto, non guardarlo in faccia». (p. 13). L’inequivocabile condizione di
disagio e di realtà conduce il lettore alla riflessione che oggi, se pur con
tante difficoltà, viviamo nel benessere e godiamo di molti benefici. Esiste
nella società occidentale la possibilità di scelta e di decisione secondo
volontà e ragione. Pertanto, il sorriso
e la felicità dovrebbe esternarsi in ognuno di noi solo perchè viviamo o per lo
meno la maggior parte dell’umanità vive in condizioni privilegiate. E ancora si legge: «dillo che sei un
filosofo, un intellettuale / e che sai a menadito Platone, Plotino, Porfirio /
e che hai insegnato ad Heidelberg, a Friburgo. / La tua chiara presenza al
campo ci lusinga / un corno, Professore, un fico secco / delle tue
irrefragabili elucubrazioni. / ... / più convincente qui dei tuoi filosofami è
il nerbo / di bue che stringe l’SS nelle mani / e il logos fa tremare, il nous,
il nomos / e manda la tua metafisica a riposo». (p.19). Nessuna parola avrebbe
senso in questo momento, significato, come direbbe Wittgenstein “ci sono delle
cose sulle quali è meglio tacere”. Inspiegabili questi versi, toccano il
profondo, scuotono l’animo umano e rinsaviscono persino i sensi perchè mai
niente di tutto questo sia rimosso e dimenticato.
«Là dove c’è il recinto
(il campo della morte - per intenderci) / pali per le fustigazioni non esistono
/ e nel piazzale non si fanno appelli / la ragione - diciamocelo è semplice: /
la minima infrazione e sei fregato / sul posto ti fucilano, ti bruciano sulla /
graticola - due volte non ci pensano, / mio caro». (p. 45). Appare lo stesso
stile descrittivo, lineare, chiaro, di Salvatore Quasimodo che scrive: «Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: “Il lavoro vi renderà liberi” uscì continuo il fumo di migliaia di donne
spinte fuori all’alba dai canili contro il muro del tiro a segno o soffocate
urlando misericordia all’acqua con la bocca di scheletro sotto le doccie a
gas».
È paralizzante lo
scenario che appare alla nostra vista, leggendo infatti questi versi si ha
l’impressione di vedere, vivere tali scene orribilanti che non hanno nulla da
condividere con la ragione. Qui peraltro è assurdo e inconcepibile identificare
realtà e ragione, non si può ammettere il panlogismo hegeliano: qui non si
scorge nulla che sia razionale, niente che sia frutto di una ragione.
Così si leggono i
bellissimi versi: «Calma / la sua preghiera a sera, viva fiamma / illuminava il
cuore / e lo stringeva forte. / Peccato che durasse poco lo stupore / se dalla
branda il tonfo della morte...». (p. 30). La morte, condizione condivisa anche
dai bambini che «avevano i piedi congelati/ e sotto le percosse delle guardie /
le mamme si inchinavano a staccarglieli da terra / ... / poi insieme entravano
tenendosi per mano». ( p. 38).
Daniele Santoro
nell’ultima parte del libro intitolata “Principio e fine” continua la
descrizione della misera quotidianità nei campi di sterminio a Leobschütz, una
città polacca poco distante dal confine con la Repubblica Ceca,
chiamata in questo modo dai tedeschi. Pertanto, nelle poesie conclusive si
assapora la libertà, una “libertà ch’è sì cara” e si leggono dei versi
commoventi: «straniero amico compagno di questa sciagura senza senso / è qui
che si separano le nostre strade. Addio. [...] di Te che non conosco nome,
nazionalità so quanto basta / so la parola dello sguardo milleniaria antica
nella sofferenza / e so la breve intensa gioia, l’incanto che si prova se a
rapirci, / se a liberarci dall’angoscia è una giusta una misura di stupore, /
una bellezza che dia senso, amico, come quella sera/ che puntavamo al cielo gli
occhi e ci sorprese / il pieno delle stelle immenso il firmamento» (p. 54).
Colmi di pathos i
versi: la gioia provata alla vista delle stelle, dopo tanta sofferenza. Questo
vuole insegnarci Santoro ad apprezzare la natura, le cose semplici, pure, che
gratificano l’animo, danno gioia e appaiono importanti quando e solo quando si
è potuto assaporare il valore inestimabile della libertà.
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