«Agisci in modo da considerare l’umanità sia
nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come fine, e
mai come semplice mezzo». Crolla la massima dell’imperativo kantiano e il
sistema nella quale poggia la libertà, il rispetto, l’autonomia di se stessi
quando vince nella vita un altro tu devi, dunque puoi: drogarti. La droga, un
male che sovrasta la ragione umana: rifugio per alcuni, gioia per altri. Questo è il tema ne Il libro dell’oppio di
Caterina Davinio, artista, autrice e scrittrice di poesie che riguardano la sua
essenza ed esistenza. È insita in ogni trama l’eroina, ma non è sola,
s’intreccia con la vita, la morte, la natura, l’amore, la noia, la
solitudine. La raccolta narra le vicende
vissute da Davinio con le sue “cattive compagnie” dal 1971 al 1997, divorata,
accecata dalla droga. Senza dubbio, leggendo tali poesie non balza l’intenzione
di dare un giudizio o avere un pregiudizio, immersi dai versi bellissimi,
musicali, strutturati in modo magistrale. Pertanto, scevra da ogni
sovrastruttura e qualsivoglia ipocrisia, mi sono accostata allo studio attento
di versi sorprendentemente disarmanti, onirici, che narrano un dramma
tutt’altro che fantastico: tormento, logorio di psiche e corpo, spesso morte.
Emerge «l’insopprimibile / desiderio / di assomigliare / a Dio» (p. 16) e la
percezione appare «un mondo chiuso / una monade / incalzata / dal senso / di
irrealtà» (p. 23). Sono maledettamente poetici i versi: « [...] una ragazza
triste / che coglie una margherita / una foto ingiallita in un arco di fiori /
un debole sorriso, arrendevole / alla nostalgia del male / e vivere clandestina
nel mondo dei grandi. / E rimarrà triste / lei che coglie / una margherita in
città, tra le case, / aspettando un giovane sensibile / un principe dal cuore
gentile, / che si ubriachi con lei, / che faccia a pugni con lei». (p. 30). Si
scorge il disperato bisogno di avere qualcuno accanto, di condividere la
solitudine. Così come tetra è la
quotidianità che si cela nella poesia: «Mentre aspetto / la mia polvere sotto
il sole. / Gocciola stupita la canicola / e stupite vene hano fame. [...] ».
(p. 36); mentre i versi risplendono di luce, colori, suoni, poesia. Con sorpesa
si scorge l’amore, soffocato dal bisogno di procurarsi la droga e si
legge: «Nel tuo corpo / c’era tutto il
mondo / e a me piaceva / sentirmi piccola / tu mi trascinavi / con quel pizzico
di violenza per una strada / che non avrei voluto percorrere / ma seguivo i
tuoi passi / come un cane affettuoso / come cerchi di fumo / come un felice
riflesso / su quell’asfalto lucente / della città notturna! [...] ». (p. 43). A
tal punto, non posso non far riferimento a Baudelaire e in particolare, alle
parole che scrive su di lui Sartre: «Baudelaire non accetterà mai la felicità,
poichè essa è immorale. [...]. Baudelaire ha scelto di soffrire, il dolore,
dice, è la nobiltà». (J.-P.- SARTRE) E come non richiamare De Quincey, citato
non a caso anche dall’autrice, e le sue Confessioni di un mangiatore di oppio,
considerato uno dei capolavori della letteratura inglese della prima metà del
XIX secolo. Al centro della narrazione di De Quincey come di Davinio, vi è
l’oppio: idolo e demone. Eppur tuttavia, la poetessa non segue lo stesso
intento dei letterati Charles Baudelaire e Thomas De Quincey; mentre, infatti,
costoro inneggiano all’oppio come sostanza benefica, vivificatrice, che acuisce
le potenzialità del genio, stimola al sogno, suscita immagini fantastiche, che
la utilizzano per scrivere, non è così, ahimè, per Caterina Davinio che non sa
di usarla, si lascia usare e dominare e sottomettere al suo potere. «Sì. / Ti
dico di sì. / Fino all’ultimo stadio del male / delizioso». Una volta libera da questo demone perverso,
adotta il linguaggio poetico per raccontare l’esperienza della droga con
distacco senza moralismi, con sottile ironia, lanciando un messaggio ad ogni
lettore chiaro e forte, che scaturisce dall’intera raccolta di poesie: “la vita
è degna di essere vissuta in qualsiasi modo lo si voglia, ma vissuta e aver la
possibilità un giorno di raccontarla a qualcuno, o magari scriverla”. È un inno alla vita paradossalmente questo
libro che in un primo istante può sembrare doloroso e drammatico. Davinio ha creduto di essere felice, di
vivere in compagnia della sua droga - compagno fedele - che non l’abbandona
finchè non sarà Caterina a deciderlo. E
si leggono i versi ritmati, che incalzano seguendo il loro metronomo: «Nubi
dove le lame / ipodermiche / dell’infinito / affondano / nella pelle /
addolorata / e grata. / [...] / luminosa / notazione, / segnatura. / (Lunga
discesa) / Droga secreta / nei labirinti / della ragione». (p. 65). Così come
«Rumore secco / di una porta / che si chiude. / Cade la pioggia / ticchettìo /
tintinnìo / scroscìo, / finché / l’orchestra / del quotidiano / la afferra / di
nuovo». (p.82). Così concludo con i
versi: «Ho in cuore / tutto il male / di un capitolo chiuso / di un universo da
dimenticare / ho in cuore / il male / di un pomeriggio di alcool e di noia / e
avido di morte / come solo sanno darla / l’alcool e la noia. [...]» e in un
“abisso senza fari e senza sponde” «Tremai / Incominciai a dire: / “Padre
nostro che sei nei cieli” ... / e gatto mi rispose / - che sei nei cieli, che
sei nei cieli - / le pupille verdi, / le sue pupille verdi / erano una foresta
di fantasmi». (p. 131). Ad un passo dalla fine la poesia sembra l’unica
espressione, l’unico mezzo in grado di organizzare e dare una forma credibile
ai fantasmi edenici dell’uomo (C. BAUDELAIRE, I paradisi artificiali). La
poesia come forma sublime della vita straripa come un fiume in piena da una
non-vita, ricordo oramai di un tempo lontano.
In copertina: Caterina Davinio, elaborazione
digitale su un autoritratto fotografico del 1979
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