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mercoledì 29 febbraio 2012

Il Pane di ieri di Enzo Bianchi (Einaudi). Intervento di Adriana Maria Leaci


Circa tre anni fa, o qualcosa in più, mi trovavo a guardare il programma CHE TEMPO CHE FA e Fazio invitò Enzo Bianchi per parlare del suo libro IL PANE DI IERI (Einaudi Editore). Rimasi così rapita del suo modo di parlare e di descrivere situazioni vissute di un tempo che mi promisi di leggerlo appena fosse possibile.  Avrei trovato anche nel libro quell’abilità nel tradurre sentimenti e scandire bene ogni pensiero attraverso le parole. Quando mi ritrovai a leggerlo mi sembrò di conoscere il frate da una vita. Tutto ciò che considero  semplice nella mia vita prese un gusto eccezionale di verità condivisa, perché la pensavo come lui, ed era riuscito a passarmi ogni sensazione. Se c’è una cosa che oggi non si vede facilmente è una lettura che coinvolga tutti i sensi umani. Ho pensato che è scritto con il cuore. E il fatto che sia un frate è soltanto una parentesi di scelta personale che, probabilmente, non avrebbe influito, in nessun momento della sua esistenza, su ciò che ha dentro. Da allora ho seguitato a comprare tutte le sue opere, leggendo allo stesso modo, con trasporto ed entusiasmo, deliziandomi in una conversazione silenziosa tra me e quel pacato signore che si veste di tutte le righe dalle quali sono composte.
Qui vi riporto alcuni pezzi del capitolo intitolato COME DIRE “TI VOGLIO BENE” che non servirebbe neanche commentarlo: “Parliamo di cibo. Non se ne può fare a meno, soprattutto per noi monferrini: il cibo è qualcosa per cui si ha cura, si deve “aver cura” perché è proprio dal mangiare, dalla tavola che si ricevono lezioni e insegnamenti, oltre che consolazioni. La tavola possiede o, meglio, possedeva un grande magistero: oggi purtroppo per molti il cibo è diventato un carburante e la tavola una mensola su cui posare ciò che si consuma. Si mangia qualsiasi cosa, a qualsiasi ora, in qualsiasi modo, accanto e non “insieme” a chiunque e, possibilmente, in fretta…
Invece per me la tavola è stata sempre, e lo è tutt’ora, il luogo privilegiato per imparare, per ascoltare, per umanizzarmi. Non è stato forse così fin dall’inizio della vicenda umana?”
E ancora: “Io amo cucinare, e lo faccio in un grande silenzio perché cucinare significa pensare, essere consapevoli, essere presenti e avere un senso forte della realtà e degli altri per i quali si cucina. Cucinando si è obbligati a una unificazione di aspetti molteplici: le leggi culinarie, le attese di chi mangerà, la conoscenza dei prodotti, l’esperienza del fuoco, dell’acqua, del tempo… Operazione straordinaria che rende intelligenti.”
A questo punto, chi mi conosce, sa che ho esagerato nell’entusiasmo e nella gioia, ma sa anche che è così che vivo tutti i giorni.


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