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mercoledì 7 settembre 2011

Dentro La Lanterna di Matteo Maria Orlando (Terre Sommerse). Intervento di Manuel De Carli













La contemporaneità è l’essenza esoterica del poetare. Il poeta, in quanto contemporaneo, tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, cogliendo, al di là degli accecanti bagliori del secolo, un’entità umbratile, un buio speciale, un’intima oscurità. Orlando scorge l’ombra dell’impercettibile e, a partire dalle sue rivelazioni, intraprende un itinerario di ricerca poetica nella dimensione metafisica dell’insondabile, illuminato, come il cinico Diogene, dalla fiamma inesausta della lanterna spirituale. Nell’atto dello scrivere il poeta si fa viator. Il mondo è per lui uno specchio ove il vero si rifrange in simboli, e la speculatio, la lettura di questo specchio, rappresenta appieno lo stato e l’identità del viator. Orlando scatena il verso delle sue riflessioni secondo un duplice ordine di conoscenza: dall’inferiore nella realtà al superiore, da ciò ch’è esterno a ciò ch’è interno all’uomo. Anche nella più disincantata considerazione della realtà sociale (prima stanza) il poeta fa emergere, dall’insieme disparato del percepibile, le contraddizioni insolubili della storia che conducono, fatali, alla dissolvenza dell’io. Sembra perciò aprirsi una lacerante divisione del soggetto, drastica nella sua nettezza e tale da dilaniare ogni unità dell’esistente. Il poeta-viator fugge così l’ormai rovinoso mondo degli uomini, nella ricerca di una realtà fisico-intellettuale dove gli elementi possano porsi in contiguità nello stesso spazio, unirsi facilmente nell’animo indiviso dell’individuo. Il Mezzogiorno estremo, così come si dà nelle narrazioni archetipiche di Bodini e Bonaviri, stelle polari nel lungo cammino di Orlando, è la terra in cui lo spazio si libera dalla dipendenza indissolubile del continuum temporale (seconda stanza). Spogliato del divenire, il Sud è eterno. Ma nella celebrazione sacrale dell’universo meridiano il poeta tradisce un anelito ineludibile di quiete e di equilibrio, fenomeni di un ritorno al primigenio. E’ così che il sentimento di cosmicità si estende e si concreta in senso personale come amore vivente, movimento senza scopo, in cui avendolo raggiunto, il poeta possa perdersi. Esso non è desiderio, ma un volgersi senza termine e inesauribile all’amato, un protendersi all'altro. I moti di Afrodite (terza stanza) sono moti infiniti, quindi senza misura, fine e confine. Ma la spontaneità interiore che si dà negli atti dell’amore, del sentimento e della volontà, determina l’essenza di un’anima. Attraverso l’esperienza del riconoscimento l’anima del viator diviene sapiente di sé, cosciente del fatto di accompagnare se stessa, di poter “cullare il suo io”, affermando la sua natura di attività spontanea della comprensione (quarta stanza). Coronamento dell’universo tutto si fa il soggetto, l’animo individuale, che s’interroga come in un gioco di azioni, di interazioni in cui ciò che resta costantemente presente è l’io corporeo, la passione di esistere e di lasciare traccia, la coscienza del corpo come coscienza di un simbolo. Nella memoria narrata del viator (quinta stanza) si congiungono così passato, presente e futuro. I suoi canti, nella temporalità integrale, esprimono quella capacità di sfuggire ai limiti dell’esperienza immediata, di proiettarsi nell’avvenire, di rompere quella traiettoria lineare del tempo per avvolgersi in una spirale esistenziale dell’eterno ritorno, nel senso che il tempo dell’essere hic et nunc necessita di ricongiungersi, spiralicamente, con il tempo dell’altrove e dell’oltre, del farsi continuo e del trasformarsi. Nell’ora del tramonto della vocazione poetica, la poesia di Orlando diviene segno e simbolo, mito e rito, accesso al fantastico e all’immaginario; in ogni caso, risposta all’eterno bisogno maieutico di un mondo oscuro e per certi versi arcano. Esigenza di verità e mistero fondano l'estetica dell’Orlando. Scrittura come catarsi, poesia come dialogo tra immagini e realtà, ricerca come comprensione e lettura degli aspetti indicibili, spesso affidati al silenzio, all’ineffabile, nel senso di non traducibile in emozione. “Experientia singularium est, ars vero universalium” (Alessandro di Hales)

Dalla Prefazione

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