“Autocitarsi è un'operazione piuttosto inelegante, che di regola andrebbe evitata”. Così si apre l'introduzione dell'ultima pubblicazione di Gianrico Carofiglio,”La manomissione delle parole” (Edizioni Rizzoli, Collana La Scala, pagine 184, € 13,00), a cura di Margherita Losacco. Il libro, come annota Carofiglio in chiusura, “si compone di due parti, dalle proporzioni molto diverse. La prima -La manomissione delle parole- dà il titolo al volume e costituisce lo sviluppo di una conversazione al Salone del Libro di Torino del 2009. La seconda parte -Le parole del diritto- è la rielaborazione di un dialogo... Il libro non ci sarebbe -o sarebbe molto diverso e meno ricco- senza il lavoro di Margherita Losacco, lavoro che è andato ben oltr e la redazione e la cura dell'apparato bibliografico... Molto del libro, dunque, le appartiene almeno quanto appartiene a me.” Detto dell'incipit e della nota finale dell'Autore, dovrei dire qualcosa su tutto quanto c'è tra l'uno e l'altra, sul contenuto insomma. La prima cosa che mi viene da considerare è che si tratta dell'ennesimo viaggio (traverso la scrittura) intorno alla scrittura. A certa scrittura. Quella che lumeggia la distanza tra forma e contenuto. L'importanza dell'assenza dell'una o dell'altro. E la loro coincidenza. A volte eventuale. Altre necessaria. Come il significante e il significato. Una scrittura fatta di scritture. Un saggio, secondo alcuni. Un saggio anomalo, secondo Carofiglio... come per me. Nel senso che -leggendolo- ho immaginato, anzi ho proprio visto Carofiglio e Losacco o, se preferite, l'avvocato Guerrieri e Margherita alle prese con un viaggio (o, se preferite, con un'indagine) intorno al caso irrisolto delle parole perdute/ru bate (o, se preferite, dello strano caso dei lemmi privati di senso, del loro naturale senso, e barattati al mercato del potere, sì da svuotare di significato contenuti e contenitori, svilendo d'ogni etica i primi e utilizzando i secondi per riempirli d'un merdoso moralismo del valore di qualche cent con la promessa d'un mondo dorato che di aureo possiede unicamente i paradisi fiscali -pregni d'ogn'altra materialità- e delle immunità -e impunità- propri soltanto di quel potere). Un caso fatto di nomi e cognomi. Quelli di chi la manomissione delle parole ha compiuto. Un caso dei giorni nostri. Meglio: che inizia da lontano e che -a più riprese- continua anche oggi. Qui come in altri Paesi. Che oggi, in Italia, si chiama Berlusconi & C., nel mentre, in altre latitudini ha preso il nome di chi ha usato a suo piacimento, stravolgendone l'originario significato, le parole per giustificare gli interessi del regime di cui era (e/o è) a capo e /o, comunque, i suoi particolari (leggi: sporchi) interessi, sacrificando quello generale, quello della collettività. E, immediatamente, vien da pensare (a me, perlomeno) al potere della parola e all'ignoranza. Io conosco entrambi. So, ancor più dopo la lettura di questo libro, cosa è capace di evocare la parola, cosa è capace di occultare, cosa è capace di muovere, cosa è capace di inchiodare, cosa è capace di provocare, cosa è capace di soffocare... Conosco -non diversamente da chi ha nozioni minime degli (o di alcuni) eventi storici (e, prima ancora, sociali e culturali...) che hanno attraversato questo pianeta in coma- la potenza della parola, di quella detta e di quella taciuta... Conosco (paradosso...) l'ignoranza. Soprattutto, la mia! Quella delle cose che ignoro. E di quelle che so esistere, ma non conosco. E dei libri che avrei dovuto leggere e non leggerò mai. E dei libri che vorrei leggere e che ancora non ho letto e chissà... E altro... E, poi, un po' so anche chi conosce il potere della parola e credo di ri-conoscere chi quel potere esprime per il Bene e chi, invece, lo usa esclusivamente per il suo bene... La differenza tra i primi e i secondi è data dal semplice uso del maiuscolo (nel primo caso), invece che del minuscolo (nel secondo caso), laddove è di tutta evidenza che il Bene comprende quello proprio e d'ogni singolo uomo (che importa la tensione al miglior mondo possibile per tutti), nel mentre il bene è quello ristretto a pochi (con affermazione di privilegi riservati a qualche casta e negazione della dignità dei più). E, allora, Carofiglio, traverso le parole di tanti altri (da Gustavo Zagrebelsky a Ludwig Wittgenstein, da Paul Auster a George Orwell, da Nadine Gordimer a George Steiner, da Aristotele a Brice Parain, da Socrate a Primo Levi, da Carlo Ginzburg a Bob Marley, da don Milani a Bob Dylan...), ha provato (riuscendoci. ..) a ridare senso (in “un gioco di sconfinamenti”) a alcune importanti parole -vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta- delle quali, per restare qui e adesso, chi ci governa ha fatto scempio... A questo scempio non c'è che un modo per rivoltarsi: dire no! Senza versare sangue. Ma dire no! Ché, dire no, significa rifiutare di essere come chi ci governa, ma significa rifiutare anche quel modo improprio e criminale di utilizzare il verbo, significa rifiutare di farsi addomesticare dal loro verbo, significa dire basta -parafrasando il titolo del libro- alla manomissione della nostra vita, ch'è la nostra, l'unica, mica la loro, quella che loro ci rubano -offendendola quotidianamente- per... la loro lurida vita! Ché nessuna vita è bella quando sciacalla quella altrui. Ah, la bellezza! Profumo di rose, senza neanche un petalo intorno. Ben Harper alle undici del mattino, mentre fuori il mondo corre. Silenzio di campo e Nino e Ciccio che scodinzolano nei miei pensieri. Ah, la bellezza! Mille e mille piccole cose. Le più grandi. Quelle che non moriranno mai. Ah, la bellezza! È il capitolo che mi piace di più. Nella vita. Come nel libro. “Bellezza” è il capitolo numero nove. Declinato da Carofiglio col pensiero di Albert Camus. E con quello di Luigi Zoia. E di Susan Sontag. E di Gabriel Garcìa Màrquez (maledetti accenti!). Coniugato con rivolta, giustizia e scelta... nel loro significato autentico. Per ri-appropriarsi di un'etica, quella del linguaggio, capace di ri-stabilire un vivere etico (“nè schiavi nè padroni” canta Enzo Avitabile in quel lavoro di valore assoluto ch'è “salvamm'o munno”), “le parole devono -dovrebbero- aderire alle cose, rispettarne la natura”. Ossia, con una delle tante citazioni (quella che segue è di T. S. Eliot) contenute nel libro: “... E ogni frase e sentenza c he sia giusta (dove ogni parola è a casa, e prende il suo posto per sorreggere le altre, la parola non diffidente nè ostentante, agevolmente partecipe del vecchio e del nuovo, la comune parola esatta senza volgarità, la formale parola precisa ma non pedante perfetta consorte unita in una danza)...” e... non dite che leggo troppo Carofiglio. Fin quando m'intrigherà la sua scrittura, fin quando sarò ancora capace di riflettere, fin quando sarò autentico, lo leggerò e... ne scriverò! E stasera (tredicigennaioduemilaundici) me ne andrei a teatro, a Brindisi... per vedere l'esito: c'è l'avvocato Guerrieri: immagini, parole e jazz... magari c'è anche Margherita, ma non posso. Mi accontenterò di lasciar bruciare un altro incense stick indiano, intanto che bevo la mia grappa alle bacche di ginepro, ascolto “What A Wonderful World” (e altro Papà Louis) e non aggiungo “parole”.
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