In Frammenti di inesistenza ed allegrie Giansalvo Pio Fortunato si presenta come una voce molto giovane ma già sorprendentemente intensa, capace di trasformare la fragilità e il tumulto in materia poetica. La sua scrittura non cerca accomodamenti: nasce da un’urgenza, da una necessità quasi rituale di dire, e lo fa inseguendo la parola fino al limite della sua resistenza. La prima parte del libro è attraversata dalle figure archetipiche del mito – Orfeo, Argo, Io, Dafne, Giona, Icaro, Medea – non come esercizio letterario, ma come corpo vivo, usato per interrogare la perdita, la metamorfosi, la distanza. In questi testi il mito è strumento e specchio, mai citazione ornamentale: è un linguaggio attraverso il quale il poeta mette in scena la sua stessa ordalia, la sua battaglia interiore. Quello che colpisce è la forza di un linguaggio sempre in tensione, che preferisce il rischio alla misura, il caos alla compostezza. Fortunato sembra combattere il disordine con il disordine, ma da questa fitta selva di immagini e frammenti nasce una voce limpida, ferita e insieme capace di rigenerarsi. C’è in lui una tonalità escatologica, una volontà di spingere la parola fino al suo limite profetico, di farne materia visionaria. Nella sezione Mogano la poesia si fa più intima, più breve e compatta: il ritmo si spezza, i versi si condensano, e il tema amoroso diventa luogo di esilio e resistenza. Qui si percepisce un movimento verso la concretezza, un cuore che batte tra i silenzi, e la capacità di evocare immagini di straordinaria densità emotiva.
Nel complesso, questa raccolta conferma l’energia di una
voce poetica giovane ma già forte, che non teme di affrontare il mito, la fede,
la rovina, e di tradurli in versi di grande potenza. È una poesia che non cerca
il consenso, ma il brivido della verità.
Per tutte le poesie:
Odissee
(...)
Incongruenza. Incongruenza.
Le odissee posseggono mani calde
in occhi infuocati col gelo.
Le odissee chiariscono il decomposto
e pregano le narici che respirano
a stento. Non ammettono ritorno,
cariano i sospiri dicendo addio,
come ogni arrivederci
posto sulle anime semplici
di chi litiga con una sola vita.
Medea
La mia casa è casa di preghiera
Il grido di un silenzio si rafferma
oltre la giustizia dell’anima
e non conosci che la profezia
a suggerire la strada della violazione,
l’incidenza di un corso perenne
sul fianco dell’inesorabile –
dritto, con l’occhio puntato
al fulcro della carne,
dove risiede il compimento
perfetto ed irriguardoso –
lì resta un’unica voce
clessidrica.
(...)
Mogano V
È la via al Sud
che innesta le praterie mortali
al pesco redento, calibrato
sul margine imperdibile di un occhio –
dal fuoco mogano – nel centro
della rinascenza. Un commiato
sussurra la stasi: metamorfosi
dal capo al segno protratto delle ossa,
scosse nella matrice del legno.
Santa la furia del cambiamento.
Ora Babele aleggia in lontananza
e mai l’aridità a ferire le anime,
l’inesplicabile sollievo di sussurrare
i giardini aperti al vento, alla fanghiglia
retta nella purificazione. Tutto è mortale,
tutto ridiviene; sorte amara
nel fiato che traspira granuli fino al cuore.
Ed è calligrafia: apertura protratta al volto.
In te amo il non scisso, il contorto
che ti tramonta malgrado il rosa
della luce nel pesco. Settembre:
gli anni levigano il ciclo. Ora sa amara
la scrittura nel palmo di Dio;
sei creata nella fenditura, l’ottagono
che è triplicità, la scossa che ti leva
sulla punta polverosa della luce.
Incessante nel prato in fiore
ed acqua in lacrime, si bagna
la corsa al tuo ventre. Ora è giunto
ciò che è spezzato; ora è giunta
la voglia del fiore anemico.
Alla tua carne risponde
la muscolatura redenta:
esercizio all’armonia.

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