Caro papà,
recentemente ti è capitato di chiedermi perché affermo
che avrei paura di te.
Lettera al padre, Franz Kafka
Ereditiamo, quasi l’agonia fosse un mandato da
tramandare nel corso delle generazioni, il male della nostra famiglia. Le urla,
le porte ammaccate dai pugni, i vetri rotti, le parole che si conficcano nella
memoria come schegge di proiettile che nessuna operazione potrà estrarre dalla
carne ferita. Sicché quando il narratore, al termine de L’anniversario di
Andrea Bajani, guarda il figlio e nei suoi tratti somatici rinviene il volto
della madre, ci specchiamo nella atroce verità che è la verità della contaminazione.
Forse, sembra dire Bajani, vista l’impossibilità di affrancarsi da questa
oscena malattia che è la famiglia, non ci resta che – come soggetti agenti –
selezionare il modo più sano per la conservazione del virus. Il che si può
tradurre così: quanto è in mio potere fare per non essere una replica di mio
padre?
Leggendo Bajani ho sofferto. Il neuropsichiatra che mi
ha seguito durante l’adolescenza era solito, in certi momenti della seduta,
alzare una mano per interrompermi e farmi notare che non più io stavo parlando
ma che, in mia vece, a parlare era mio padre. La mano alzata del medico era
atroce: combattevo giornalmente per smarcarmi da quell’ombra, e me la ritrovavo
a invadermi lingua e corde vocali, un’emanazione di me, o io un’emanazione di
lui.
Ed è qui che Bajani dimostra, a livello narrativo,
un’intelligenza che giustifica le lodi che la critica ha rivolto al suo
romanzo. Perché della vita che ha seguito il nucleo domestico d’origine Bajani
non dice nulla. O molto poco. Ci dice che si è sposato due volte e che dalla
seconda moglie ha avuto un bambino (nei cui occhi intravede mamma). A livello
di storytelling, si tratta del cosiddetto “cliffhanger”: dopo più di cento
pagine spese ad analizzare la sventura della sua famiglia, il lettore si
aspetta che chi racconta la storia, ormai costruitosi un microcosmo domestico
suo proprio, ci spieghi cosa di diverso (o di uguale) abbia fatto rispetto ai
genitori. Bajani, con onestà intellettuale, non fornisce una risposta che
avrebbe appiattito quanto di un romanzo è davvero – e sempre – necessario: la
domanda volta a chi legge. La non-risposta di Bajani è: per quanto
intellettualmente possiamo avere individuato la marcescenza della famiglia che
ci ha dato alla luce, le contingenze non garantiranno mai un completo
discostamento da certi pattern. In soldoni, tutto è possibile. È possibile che
il giovane più attento alle istanze post-femministe divenga un adulto violento;
è possibile che il bambino abusato si faccia padre abusante. La famiglia che ci
lasciamo alle spalle quando ne costruiamo una nostra ci regala, come ultimo
colpo inferto, la paura atterrente di replicare quanto i nostri occhi di bimbi
hanno pianto.
Ne L’anniversario, uscito per Feltrinelli
quest’anno, nessun personaggio è chiamato per nome. Analogia forse audace: La
strada di Cormac McCarthy, dove i personaggi, più che caratterizzazioni
tridimensionali, significavano una funzione. Lo stesso dicasi per “il padre”,
“la madre”, “la sorella”. Il romanzo di Bajani è il resoconto delle a volte
spettacolari e a volte subdole tragedie della famiglia che l’ha fatto nascere.
L’operazione somiglia all’autofiction di Carrère, dove il narratore è
protagonista, dove il protagonista si eleva e guarda dall’alto la sua
esperienza perché la sua visione sia quella distaccata, indagante di un
chirurgo col bisturi. Sicché il narratore è interno ma la sua
iperconsapevolezza, la sua iperanalisi lo rendono, di fatto e a un tempo,
esterno. Tutto filtrato dall’intellettualizzazione del nostro, il romanzo
miscela suggestioni sociologiche attuali concernenti il patriarcato, scene
affrontate da Bajani in medias res e istantanee di momenti trascurabili che,
nell’a posteriori della narrazione risultano essere epifaniche.
Testi di questa guisa si prestano facilmente alla
pornografia del dolore, al sensazionalismo. Bajani avrebbe potuto scegliere la
via del narratore che ricorda e vede, ricorda ed esperisce; avremmo avuto un
romanzo più classico, di scene montate in sequenza che rappresentassero
l’infelicità di una famiglia. L’autore decide, invece, di essere calmo, di non
voler dare nessuno spettacolo. Non minore è la forza, perché ne riesce un
narratore la cui curiosità è pura ma di cui è pura anche l’intelligenza, che lo
induce, con una prosa senza fronzoli che dice più che mostrare, all’analisi e
non al racconto. Operazione da cui scaturisce, più che un intreccio, la
fotografia di un ecosistema: quello della famiglia.
Come accennato, quella del narratore è una famiglia
con modello patriarcale, dove il padre comanda, governa, la cui ingerenza
intossica l’aria, pregiudica ogni conversazione, inibisce gli slanci. È anche
un padre violento. Non un violento cronico, dice il narratore; un violento,
comunque. Il narratore racconta di quel giorno orribile in cui accorsero due
poliziotti, il pianerottolo invaso dai curiosi e preoccupati vicini, nella casa
messa a soqquadro, con vetri rotti e un’anta scardinata, con la madre che riportava
una ferita sanguinante alla testa. Con un nulla di fatto si risolse la
faccenda, perché la donna – votata, come vedremo, all’eclissi – riportò di
essere caduta. Versione ufficiale: una spinta, quindi – dice Bajani
ironicamente – non un atto considerabile violento. Solo una spinta. Da cui,
ahinoi, una caduta. Eppure è proprio qui che Bajani – come, ripeto, vedremo –
interrompe la descrizione della madre come donna sottomessa e le concede, come
in un risarcimento, il potere. Situazione tipica: violenza, senso di colpa,
bisogno di perdono. Ma fintantoché la madre, sempre asservita, non avesse
perdonato il pater familias, il ritmo della vita non avrebbe potuto riprendere.
Tale il potere, il solo potere: quello – dice il narratore – di salvare il
padre dalla sua stessa violenza.
Ma L’anniversario è un libro prettamente sul
femminile. Su un certo tipo di femminile, almeno: quello delle famiglie di chi
è nato, come Bajani, nella prima metà degli anni Settanta.
La madre del narratore non esiste. Il nostro, dice,
non ha memoria della madre che rassetta, che lava i piatti; ma lo sa, perché sa
che il padre i piatti non li lavò mai. Nell’invisibilità a cui è stata
costretta e a cui, poi, si è dedicata, la madre – dice il narratore – deve
essere scorporata dall’ingombrante figura paterna. Tale bisturi – prosegue il
narratore – è il bisturi speciale del romanzo che, tramite l’invenzione,
accantona il realmente accaduto in virtù del vero.
Smaniava, la madre del narratore, per non esistere, ed
esisteva già fin troppo, perché puliva, perché addetta all’ordine della casa.
Aveva delle amiche, poi perse tutte. E il narratore
ricorda che quelle si lamentavano dei mariti per, in perverso gioco delle
parti, fortificare la struttura patriarcale. Ma la madre no, non si lamentava.
Non perché la sua famiglia non avesse la morte in seno, ma perché la donna non
ne avvertiva il bisogno, in volto qualcosa, dice il narratore, di prossimo
all’infelicità.
Un’amica, tuttavia, rischiò di stravolgere l’ordine
costituito. Matrimonio in crisi, l’amica fumava molto, gesto che il narratore
interpretava come di grave trasandatezza. Poiché il padre del narratore tradiva
la moglie (“ne aveva bisogno per sentirsi vivo” ed era solo tradendola che
poteva godersi il tempo con lei), le due donne lasciarono un biglietto nella
macchina del patriarca. Finì male. L’amica, in circostanze non chiare al
nostro, fu allontanata e, quando morì fulmineamente di tumore al cervello, il
padre del narratore rivendicò un’influenza sulla malattia, quasi l’avesse
causata lui, perché “morivano tutti quelli che attentavano alla famiglia”.
Infelicità, quella della madre, di questo fantasma,
interrotta solo dal breve periodo in cui il padre le diede l’autorizzazione a
lavorare in un supermercato. Impiego, questo, temporaneo, breve, brevissimo, si
tornò alla vita.
Il padre dettava le regole, garantiva una paghetta
alla madre. E decise lui il trasferimento da Roma al Piemonte, negli anni delle
emigrazioni dai centri alle province. Del periodo piemontese, appena prima che
il narratore iniziasse l’università, un’immagine della madre che la memoria
avrebbe salvato: languente in poltrona, gli occhiali caduti sul naso non per
leggere ma per pigrizia, le parole crociate in grembo. Tale la madre, per cui
la vita non contava. Tanto quanto la morte. Vivere non era importante. Il
narratore dice che “non le veniva in mente”. E quando, interrompendo il
silenzio, la donna riportava notizie di cronaca nera ascoltate al telegiornale,
i fatti truci erano cose come le altre, cose che capitavano.
Il narratore si interroga dunque sulla vita prima. E,
dice, le cose sarebbero potute andare diversamente. Senza essere mai esplicito
ma conservando una pacatezza che, contrastata dall’orrore, assume carica
semantica, il narratore ci dice che solo la madre iniziò l’università; non il
padre, e che la sua ingerenza si stava indebolendo, e che fortunatamente la
donna rimase incinta e rinunciò agli studi.
Il padre, questa creatura grottesca, fascista,
fagocitante, ha picchiato anche il narratore, che ricorda i pugni sulla
mascella quando rubava dai portafogli per giocare ai videogiochi. Il padre,
essere che si nutre della linfa della sua famiglia, e che quindi resiste ai
tentativi di fuga. Sicché, quando il narratore, un giorno, portò dai genitori
quella che sarebbe diventata la sua prima moglie, reduce da un cancro i cui
strascichi ancora la debilitavano e questa accusò stanchezza, il gerarca disse:
“Sei stanca solo quando ti pare a te”. Modo, crede il narratore, per dire: “Mi
stai portando via mio figlio”.
I genitori non si sarebbero spiegati il motivo
dell’allontanamento. Furono lettere a mano, email, qualche telefonata. Ma,
adesso che il narratore scrive e a breve albeggerà, sono dieci anni che non li
vede. Ha eretto un muro che gli ha permesso di vivere dieci felici anni.
Nel fatalismo si chiude il libro, nel destino di ogni
figlio, nell’eterno ritorno: mio figlio ha il volto di mia madre, nota Bajani.
“E non fa bene, e non fa male.”

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