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mercoledì 4 giugno 2025

Ereditare il male – su L’anniversario di Andrea Bajani (Feltrinelli) - Intervento di Marco Sbrana

Caro papà,

recentemente ti è capitato di chiedermi perché affermo che avrei paura di te.

Lettera al padre, Franz Kafka

 

Ereditiamo, quasi l’agonia fosse un mandato da tramandare nel corso delle generazioni, il male della nostra famiglia. Le urla, le porte ammaccate dai pugni, i vetri rotti, le parole che si conficcano nella memoria come schegge di proiettile che nessuna operazione potrà estrarre dalla carne ferita. Sicché quando il narratore, al termine de L’anniversario di Andrea Bajani, guarda il figlio e nei suoi tratti somatici rinviene il volto della madre, ci specchiamo nella atroce verità che è la verità della contaminazione. Forse, sembra dire Bajani, vista l’impossibilità di affrancarsi da questa oscena malattia che è la famiglia, non ci resta che – come soggetti agenti – selezionare il modo più sano per la conservazione del virus. Il che si può tradurre così: quanto è in mio potere fare per non essere una replica di mio padre?

Leggendo Bajani ho sofferto. Il neuropsichiatra che mi ha seguito durante l’adolescenza era solito, in certi momenti della seduta, alzare una mano per interrompermi e farmi notare che non più io stavo parlando ma che, in mia vece, a parlare era mio padre. La mano alzata del medico era atroce: combattevo giornalmente per smarcarmi da quell’ombra, e me la ritrovavo a invadermi lingua e corde vocali, un’emanazione di me, o io un’emanazione di lui.

Ed è qui che Bajani dimostra, a livello narrativo, un’intelligenza che giustifica le lodi che la critica ha rivolto al suo romanzo. Perché della vita che ha seguito il nucleo domestico d’origine Bajani non dice nulla. O molto poco. Ci dice che si è sposato due volte e che dalla seconda moglie ha avuto un bambino (nei cui occhi intravede mamma). A livello di storytelling, si tratta del cosiddetto “cliffhanger”: dopo più di cento pagine spese ad analizzare la sventura della sua famiglia, il lettore si aspetta che chi racconta la storia, ormai costruitosi un microcosmo domestico suo proprio, ci spieghi cosa di diverso (o di uguale) abbia fatto rispetto ai genitori. Bajani, con onestà intellettuale, non fornisce una risposta che avrebbe appiattito quanto di un romanzo è davvero – e sempre – necessario: la domanda volta a chi legge. La non-risposta di Bajani è: per quanto intellettualmente possiamo avere individuato la marcescenza della famiglia che ci ha dato alla luce, le contingenze non garantiranno mai un completo discostamento da certi pattern. In soldoni, tutto è possibile. È possibile che il giovane più attento alle istanze post-femministe divenga un adulto violento; è possibile che il bambino abusato si faccia padre abusante. La famiglia che ci lasciamo alle spalle quando ne costruiamo una nostra ci regala, come ultimo colpo inferto, la paura atterrente di replicare quanto i nostri occhi di bimbi hanno pianto.

Ne L’anniversario, uscito per Feltrinelli quest’anno, nessun personaggio è chiamato per nome. Analogia forse audace: La strada di Cormac McCarthy, dove i personaggi, più che caratterizzazioni tridimensionali, significavano una funzione. Lo stesso dicasi per “il padre”, “la madre”, “la sorella”. Il romanzo di Bajani è il resoconto delle a volte spettacolari e a volte subdole tragedie della famiglia che l’ha fatto nascere. L’operazione somiglia all’autofiction di Carrère, dove il narratore è protagonista, dove il protagonista si eleva e guarda dall’alto la sua esperienza perché la sua visione sia quella distaccata, indagante di un chirurgo col bisturi. Sicché il narratore è interno ma la sua iperconsapevolezza, la sua iperanalisi lo rendono, di fatto e a un tempo, esterno. Tutto filtrato dall’intellettualizzazione del nostro, il romanzo miscela suggestioni sociologiche attuali concernenti il patriarcato, scene affrontate da Bajani in medias res e istantanee di momenti trascurabili che, nell’a posteriori della narrazione risultano essere epifaniche.

Testi di questa guisa si prestano facilmente alla pornografia del dolore, al sensazionalismo. Bajani avrebbe potuto scegliere la via del narratore che ricorda e vede, ricorda ed esperisce; avremmo avuto un romanzo più classico, di scene montate in sequenza che rappresentassero l’infelicità di una famiglia. L’autore decide, invece, di essere calmo, di non voler dare nessuno spettacolo. Non minore è la forza, perché ne riesce un narratore la cui curiosità è pura ma di cui è pura anche l’intelligenza, che lo induce, con una prosa senza fronzoli che dice più che mostrare, all’analisi e non al racconto. Operazione da cui scaturisce, più che un intreccio, la fotografia di un ecosistema: quello della famiglia.

Come accennato, quella del narratore è una famiglia con modello patriarcale, dove il padre comanda, governa, la cui ingerenza intossica l’aria, pregiudica ogni conversazione, inibisce gli slanci. È anche un padre violento. Non un violento cronico, dice il narratore; un violento, comunque. Il narratore racconta di quel giorno orribile in cui accorsero due poliziotti, il pianerottolo invaso dai curiosi e preoccupati vicini, nella casa messa a soqquadro, con vetri rotti e un’anta scardinata, con la madre che riportava una ferita sanguinante alla testa. Con un nulla di fatto si risolse la faccenda, perché la donna – votata, come vedremo, all’eclissi – riportò di essere caduta. Versione ufficiale: una spinta, quindi – dice Bajani ironicamente – non un atto considerabile violento. Solo una spinta. Da cui, ahinoi, una caduta. Eppure è proprio qui che Bajani – come, ripeto, vedremo – interrompe la descrizione della madre come donna sottomessa e le concede, come in un risarcimento, il potere. Situazione tipica: violenza, senso di colpa, bisogno di perdono. Ma fintantoché la madre, sempre asservita, non avesse perdonato il pater familias, il ritmo della vita non avrebbe potuto riprendere. Tale il potere, il solo potere: quello – dice il narratore – di salvare il padre dalla sua stessa violenza.

Ma L’anniversario è un libro prettamente sul femminile. Su un certo tipo di femminile, almeno: quello delle famiglie di chi è nato, come Bajani, nella prima metà degli anni Settanta.

La madre del narratore non esiste. Il nostro, dice, non ha memoria della madre che rassetta, che lava i piatti; ma lo sa, perché sa che il padre i piatti non li lavò mai. Nell’invisibilità a cui è stata costretta e a cui, poi, si è dedicata, la madre – dice il narratore – deve essere scorporata dall’ingombrante figura paterna. Tale bisturi – prosegue il narratore – è il bisturi speciale del romanzo che, tramite l’invenzione, accantona il realmente accaduto in virtù del vero.

Smaniava, la madre del narratore, per non esistere, ed esisteva già fin troppo, perché puliva, perché addetta all’ordine della casa.

Aveva delle amiche, poi perse tutte. E il narratore ricorda che quelle si lamentavano dei mariti per, in perverso gioco delle parti, fortificare la struttura patriarcale. Ma la madre no, non si lamentava. Non perché la sua famiglia non avesse la morte in seno, ma perché la donna non ne avvertiva il bisogno, in volto qualcosa, dice il narratore, di prossimo all’infelicità.

Un’amica, tuttavia, rischiò di stravolgere l’ordine costituito. Matrimonio in crisi, l’amica fumava molto, gesto che il narratore interpretava come di grave trasandatezza. Poiché il padre del narratore tradiva la moglie (“ne aveva bisogno per sentirsi vivo” ed era solo tradendola che poteva godersi il tempo con lei), le due donne lasciarono un biglietto nella macchina del patriarca. Finì male. L’amica, in circostanze non chiare al nostro, fu allontanata e, quando morì fulmineamente di tumore al cervello, il padre del narratore rivendicò un’influenza sulla malattia, quasi l’avesse causata lui, perché “morivano tutti quelli che attentavano alla famiglia”.

Infelicità, quella della madre, di questo fantasma, interrotta solo dal breve periodo in cui il padre le diede l’autorizzazione a lavorare in un supermercato. Impiego, questo, temporaneo, breve, brevissimo, si tornò alla vita.

Il padre dettava le regole, garantiva una paghetta alla madre. E decise lui il trasferimento da Roma al Piemonte, negli anni delle emigrazioni dai centri alle province. Del periodo piemontese, appena prima che il narratore iniziasse l’università, un’immagine della madre che la memoria avrebbe salvato: languente in poltrona, gli occhiali caduti sul naso non per leggere ma per pigrizia, le parole crociate in grembo. Tale la madre, per cui la vita non contava. Tanto quanto la morte. Vivere non era importante. Il narratore dice che “non le veniva in mente”. E quando, interrompendo il silenzio, la donna riportava notizie di cronaca nera ascoltate al telegiornale, i fatti truci erano cose come le altre, cose che capitavano.

Il narratore si interroga dunque sulla vita prima. E, dice, le cose sarebbero potute andare diversamente. Senza essere mai esplicito ma conservando una pacatezza che, contrastata dall’orrore, assume carica semantica, il narratore ci dice che solo la madre iniziò l’università; non il padre, e che la sua ingerenza si stava indebolendo, e che fortunatamente la donna rimase incinta e rinunciò agli studi.

Il padre, questa creatura grottesca, fascista, fagocitante, ha picchiato anche il narratore, che ricorda i pugni sulla mascella quando rubava dai portafogli per giocare ai videogiochi. Il padre, essere che si nutre della linfa della sua famiglia, e che quindi resiste ai tentativi di fuga. Sicché, quando il narratore, un giorno, portò dai genitori quella che sarebbe diventata la sua prima moglie, reduce da un cancro i cui strascichi ancora la debilitavano e questa accusò stanchezza, il gerarca disse: “Sei stanca solo quando ti pare a te”. Modo, crede il narratore, per dire: “Mi stai portando via mio figlio”.

I genitori non si sarebbero spiegati il motivo dell’allontanamento. Furono lettere a mano, email, qualche telefonata. Ma, adesso che il narratore scrive e a breve albeggerà, sono dieci anni che non li vede. Ha eretto un muro che gli ha permesso di vivere dieci felici anni.

Nel fatalismo si chiude il libro, nel destino di ogni figlio, nell’eterno ritorno: mio figlio ha il volto di mia madre, nota Bajani. “E non fa bene, e non fa male.”






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