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venerdì 23 maggio 2025

I poeti, che strane creature – note su Nelle vene del mondo di Donato Di Poce - Intervento di Marco Sbrana*

Io esisto come sono, questo è abbastanza, se nessun altro al mondo ne fosse a conoscenza, sarei contento, e se tutti ne fossero a conoscenza, sarei contento.

Walt Whitman

 

Il tempo della parola poetica non può, per natura, essere cronistoria; si tratta di un tempo vicino all’aiòn greco di cui parla Deleuze in Logica del senso. Un tempo che balza, tra l’infinito del già avvenuto e l’infinito avvenire, tra ciò che è appena accaduto e ciò che lì lì per darsi. Lo sa bene Donato Di Poce, la cui autoantologia Nelle vene del mondo (edita per I Quaderni Del Bardo, Lecce, ottobre 2023), si apre con un poemetto dove il soggetto lirico appare spossessato di ogni stratificazione narcisistica, insomma affrancato dal reale in quanto società, in quanto mondanità, assurto a una condizione ontologica di abbandono al divenire dell’essere. Di Poce, attento, pone il poemetto in questione come apertura del testo, a mo’ di dichiarazione di intenti. La poesia, per Di Poce, è generosità; l’antitesi dello sbrodolamento di sedicenti poeti la cui sola vocazione è il lamento. Prospettiva olistica, quella di Di Poce, di un uomo, un poeta, un soggetto lirico, consapevole a tal punto della sua piccolezza da gioire della propria dissoluzione. L’eco, chiaramente, è Whitman e, per un riferimento di prosa, Thoreau: l’alterità – sembra dire il poeta – mi fagocita, ed è un orgasmo, quello definitivo, quello in cui è bello morire.

 

Non c’è molto da opporre

ai giorni d’inesistenza.

 

Viene poi il poema Mondi sommersi, nel quale riecheggiano i temi dell’ouverture – l’elemento naturale, per esempio l’evocato Zefiro; l’abbandono all’infinità dell’Essere; il contatto con la terra (da cui si evince la biografia di un uomo dedito all’impegno, alla zappa, un contadino della parola che vede nei suoi acri non le ombre platoniche ma la trascendenza delle idee).

Segue un altro poema, un poema erotico col disegno di Sangermano: L’Horigine Du Monde. Encomiabile l’unità tematica, in particolare nella stanza numero V, qui riportata:

 

Vorrei leggerti il destino tra i seni

E camminare tra i sentieri del tuo pube

Come in cerca di fragole

E dilatare l’attesa di un bacio

Tra petali di lingua pratolina

Fino a toccarti l’anima, l’inguine

Mentre tu giochi tra le mie cosce

E mi dici che ami le fragole

Con la panna montata.

 

La formazione poetica di stampo romantico, dell’Io poetico ora contrapposto ora fuso con l’elemento naturale tocca il tema erotico di Bataille, ossia il venire meno del soggetto quando si dà all’altro nell’eros, e la complessità filosofica dell’estratto si chiude con la terra di cui sopra, con le poetica del quotidiano, dell’insignificante che il poeta – come fa Ozu nei suoi film – eleva, facendogli raggiungere un più alto grado ontologico, che qui – con la panna montata – diventa chiosa epifanica.

Previa presa di coscienza, ogni forma d’arte è resistenza politica. Se 20.000 bambini vengono uccisi dalle bombe, con la calce delle case a piovere loro addosso, l’artista includerà la tragedia del mondo che lo circonda anche quando non ne parlerà esplicitamente. Di Poce esplicita il tema civile, da buon pasoliniano (Pasolini a cui ha dedicato un libro), in Lungo la East Side Gallery. Apodittico, polemico, per niente oscuro nella metafora, desideroso di comunicare, scrive Di Poce:

 

Dopo vent’anni non restano

Che le ombre che attraversano muri invisibili

L’incubo di replicanti ciechi a Gaza o Gerusalemme

E le preghiere insanguinate dei monaci Tibetani

E una ragazza che come me

Cammina in trance sotto la pioggia

Lungo la East Side Gallery

Piangendo, urlando, fotografando

Gli ultimi brandelli di memoria

E di sogni cancellati dal tempo

Prima che un Videospot

Invada le piazze sporche

Dai mercanti di souvenir

Mentre zig-zag “sinistri” disegnano le strade

Di turisti chiassosi, irriverenti e indifferenti

Che calpestano le tracce del muro

E non sanno che i muri sono loro.

 

Qual è lo scopo dell’arte? mi chiedo. Da una parte, chi esprime; dall’altra, chi comunica. I grandi fanno entrambe le cose. Riescono, come riesce Di Poce, a costruire un sé poetico complesso senza mascherarsi dietro la figura retorica oscura, ma anzi desiderando di essere compreso, dimodoché si stabilisca un legame tra mittente e destinatario; un legame che, credo pensi Di Poce, fa sì che l’atto creativo abbia senso e valore politico.

Per dirla con le sue parole:

 

Sopravviversi bisogna

Fino a toccarsi l’anima

E sentire il vuoto che avanza

Come una nuvola che minaccia l’aria.

Essere uomo d’azione e di parola

Oltre la luce e il buio

Oltre la stella della memoria

E dentro la parola perdersi

Fino a diventare, silenzio della terra

Respiro del mondo

Che chiama il tuo respiro.

 

Nella sua autoantologia, Di Poce ha cesellato, e selezionato solo quanto era necessario a definire ciò che è stata per lui la poesia nell’ultimo ventennio.

Comunicare, dunque. E anche rivolgersi. Presente nell’opera tutta di Di Poce è il concetto di dedica. Oltre che, politicamente, essere un rigetto del narcisismo, diviene questione di stile quando, nelle poesie dedicate a Carmelo Bene e Pasolini (e Mattei, vedi Petrolio, il capolavoro incompiuto di PPP), la parola poetica dell’autore, tanto influenzata dai grandi cui si rivolge, sembra essere detta non più da lui ma da loro, e sembra di sentire cantare Bene, e cantare Pasolini, con Di Poce che si fa dire dal linguaggio, nell’atto di umiltà che è tutta la sua poesia, una genuflessione non solo alla grande alterità dell’infinito, ma alla piccola alterità dei maestri.

Di Poce dedica parole anche a Alda Merini e Albert Einstein. Così si esprime l’interiorità: non per creazione – dice Di Poce – ma per derivazione, derivazione continua, contaminazione, financo furto.

E poi l’interiorità smarrita del postmoderno:

 

Vorrei zittirmi per sempre

Non dover più difendermi dalle parole.

Vorrei essere un’anima

Senza rumori, senza conoscenze.

Un silenzio d’acqua

Perso tra le parole della tua sete.

Zitto come una nuvola

A riempire il vuoto scolpito

Nel tuo cuore

 

Un torrente inesauribile di parole e immagini che sommergono, sfuggendo all’aborto che meriterebbero, e confondono, e non hanno ragion d’essere. E il poeta si trova ad anelare al silenzio, all’incorporeo, ché il corpo fa male, fa male camminare, com’è ingiusto vivere per sopportare!

A Milano, già nel dicembre del 1997, quando il sottoscritto ancora non era nato, Di Poce così pregava, così cantava (Ascoltando il silenzio):

 

E ogni volta che

Una forma di brace fluttua leggera

Un respiro di cenere svuota l’abisso

 

Nella prosa I Poetocrati, la rabbia. Il mondo poetico, questa élite di narcisi, dice Di Poce, ha perso il contatto con la carne, il contatto col sangue. E Di Poce li critica perché li vive. I poetocrati “sono falsi poeti, falsi critici, falsi editori, maestri del camufflage, del travestitismo e del mimetismo. Sembrano poeti, si comportano da poeti, perfino scrivono quasi come i poeti, ma non lo sono veramente, sono come le zecche e le mosche tze tze, sono maestri del presenzialismo e dell’apparizione, sono ovunque, credono di sapere tutto, e si spacciano per aspiranti Nobel e accademici pluripremiati. Ma i loro testi puzzano di poesia, come fiori marci o uova andate a male.” La poesia è atto comunitario, dice Di Poce, non è la sega che soddisfa solo chi agita la mano. I poetocrati “sonoquelli che si spacciano tuoi amici per arrivare ad altri amici. Quelli che si spacciano tuoi amici solo quando pubblichi un libro o sei sulle pagine dei giornali.” In fondo, per quanto bravi possiamo essere, per quanto geniali possiamo essere considerati:

 

Le cose più belle

Le scrivono le rondini

Non i Poeti allevati

Tra le gabbie dell’Utopia.

Le cose più belle

Le scrivono i pazzi, i criminali, gli offesi

Non i Mandarini della Rivoluzione.

Le cose più belle

Le scrivono le foglie

Non gli uomini arrampicati

Agli alberi della conoscenza.

Io non sono rondine, né pazzo, né foglia

Per questo non so scrivere

Le cose più belle.

 

Questa la malinconia genuflessa ma placida – Le cose più belle – di cui è stato capace e sarà capace Di Poce.

Per concludere, visitiamo un tempo in cui neppure Di Poce era nato.

È il 1949 e George Duthuit domanda a Samuel Beckett:

Quale possibilità resta all’artista?

E Beckett:

L’espressione che non c’è nulla da esprimere, nulla con cui esprimere, nulla da cui esprimere, nessun potere di esprimere, nessun desiderio di esprimere, insieme con l’obbligo di esprimere.

 

*Marco Sbrana, nato il 26/03/2003, è studente di scrittura creativa presso la scuola Mohole. Collabora come critico letterario e cinematografico con le riviste Zona di disagio e Evidenzialibri. Ha scritto un romanzo e una raccolta di poesie entrambi inediti.




 

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