In Eliogabalo di Antonin Artaud si trova l’espressione “fiumi di sperma”. Lo lessi per la prima volta in comunità psichiatrica: prestito del mio compagno di stanza. Trovo questi due elementi strettamente interconnessi, e credo rispecchino la poetica di Artaud. Donato Di Poce, nel suo libro del 2019 Il poeta e il suo doppio, edito I Quaderni del Bardo, inizia il saggio su Artaud suddividendone la produzione in branchie Scrittura Automatica visionaria-alchemica; invettiva metalinguistica di rivolta antigrammaticale; Animismo escrementale; Poesia Totale e pittogrammatica; Anarchismo polisemico creattivo e rigeneratore; Ecolalia primordiale e battesimale. Si tratta, in Di Poce, di un saggio atipico, di matrice prettamente cubista. Specchio dell’artista che vuole studiare nella carnalità delle sue parole. Se un poeta parla di un poeta, la focalizzazione – si dice in scrittura creativa – è interna. Focalizzazione sulla parola. Mi pare che, dal punto di vista non già del significato (pescando da Saussure, e poi da Lacan, e quindi da Carmelo Bene) ma del significante, il poeta, col tramite della parola inserita in contesti atipici, cerchi la luce. Anche Baudelaire cercava la luce, se preleviamo il significato dalle sue composizioni e lasciamo il significante, la traccia, il segno. Come ha fatto per Pier Paolo Pasolini, Di Poce delinea – cito – un trattato su Artaud che vada “oltre i luoghi comuni della contraddittorietà, e della follia”. Oltre lo scandalo, al nocciolo duro. Dopo un quadro alquanto generico ma lessicalmente saturo su Cahiers e Pittogrammi, Di Poce rompe il patto col lettore per inserire, all’interno di un libro che si presuppone essere di critica, una raccolta di componimenti poetici. Trovo la scelta in linea con Artaud: è il flusso, è l’incandescenza, è la semantica spezzata, è lo sperma.
“Un tomo di sangue e visioni
Che ci obbliga a credere alla vita.”
Così scrive Di Poce nella poesia XI. Un
uomo segnato dal lutto di sé – un Cechov schizofrenico, antiedipico – come
Antonin Artaud, in che modo crede nella vita? In che modo, ammesso e non
concesso che la tesi sopraesposta abbia senso, cerca la luce? Cantava De André:
Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio speciale,
di speciale disperazione; che tra il vomito dei respinti muove gli ultimi
passi, per consegnare alla morte una goccia di splendore. Ora, in prosa,
significato e significante stanno in rapporto identitario; in poesia, solo la
musica conta. Lo stesso coagulo di parole, se cantato, assume la sua carica di
sperma, di vita, di flusso artaudiano. Elettroshock, malattia. La vita è
perdita di sangue, la vita di Artaud in particolare, tanto quanto la vita del
giovane Eliogabalo. Ma è nel libro sacro, nel tomo, del sangue e della psicosi,
che i poeti – quando cantano davvero – ricercano la luce, obbligati a credere
nella vita.
Di Poce ha qualità di sintesi: distici
interni ai componimenti godono di autonomia. E lo sa. Il terzo blocco del libro
è costituito da – neologismo – “poesismi”: lampi di luce in prosa poetica.
Ne cito alcuni che mi paiono studiare
Artaud nella visceralità della parola, non tanto nel significato che sfocia nel
prosastico.
“La follia non è un dono
Ma un precipizio vivente
Una grazia che aiuta a pensare oltre.”
Il mio preferito cita Montale
(ricordiamo il “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato”)
“Non chiedete ai poeti la parola che
plachi
Non ascoltate i pifferai dell’effimero
La poesia è fuoco che arde sotto la
cenere.”
Aggiungo, con Montale:
Codesto solo oggi possiamo dirti
Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
Il seguente, invece, sembra riassumere
l’idea lacaniana di irruzione del Reale, di rottura del tessuto linguistico
(Artaud, ovvio, ma anche Carmelo Bene con Nostra signora dei Turchi)
“Io non sono un poeta
Io sono lo squilibrio vivente della
scrittura
Il paradosso negato dell’essere
La singolarità plurima integrale
Il prisma intangibile del male.”
Notiamo l’ossimoro, caro a Di Poce quando scriveva di Pasolini: negato/essere; singolarità/plurima/integrale. Il sottotesto politico, che non può – ripetendo – non avere a cuore un poeta appassionato di PPP, è dato non già tanto dai poesismi, quanto, nell’atipico saggio Il poeta e il suo doppio, dalle illustrazioni, che accompagnano i testi di Di Poce, realizzate da Emanuele Gregolin. L’Io, pare dire Di Poce parafrasando Artaud e la corrente in cui lo si può far rientrare, a partire dalla frammentazione linguistica di matrice joyciana, è un anticorpo della società; in particolare l’Io del poeta: vediamo, a pagina 65, un volto schizzato sopra la città, sovrapposto, ingrandito. “Io sono un artista martire”, dice Di Poce. “Colature di silenzi”, è di nuovo Di Poce quando accompagna il disegno di un taccuino che contiene un uomo stilizzato, come a dire che nel flusso poetico – sperma, di nuovo sperma – il soggetto è sempre parlato, marchiato indelebilmente dall’Altro da cui non si deve affrancare ma che deve ereditare soggettivamente, facendo sua la radice. È poi un blocco, nel saggio di Di Poce, più tradizionale. Che inizia con l’ammissione di impotenza nel definire in modo ordinato (come a sprazzi è la presente recensione, penso coerentemente) Antonin Artaud. Un poeta (Di Poce) che studia un poeta-critico (un autore, insomma, Artaud) che descrive le meccaniche sociali dietro la tragedia di un altro poeta (visivo), Vincent Van Gogh. Matrioska riuscita. Come se non bastasse, Di Poce studia le parole che Derrida gli ha dedicato. Si inscrive così Artaud, malmenato da una società miope e fondata sull’ordine psichiatrico repressivo, parimenti a quella che aveva ucciso Van Gogh, nel tessuto e nella corrente del Decostruzionismo? Sarebbe controintuitivo incapsulare uno schizofrenico (echi di antipsichiatria, ci sarebbe da parlarne) in uno schema culturale e quindi sociale. Dunque, diciamo di no. Con la locuzione “il gioco del fascismo eterno di dio” si chiude la lettera – che Di Poce riporta – di Artaud a Pablo Picasso. L’ho letta qui per la prima volta. Mi sembra che il dolore di Artaud, affamato, picchiato, figlio unico, non perdonato, vinca sulla sua genialità. La società, l’ordine psichiatrico, la fame: hanno vinto loro. È sempre così, pare sentenziare Di Poce. Possono, però, esultare solo nella vita; in letteratura, è il vinto che il poeta ama, a cui restituisce dignità. Il libro di Di Poce conferma l’amore per una scrittura plurilinguistica di contaminazione tra saggio, poesia. Un respiro di scrittura che aspira a un concetto e una praxis d’arte totale. Il poeta scende dal palcoscenico del teatro e mette in scena la vita con tutte le sue colature d’amore e di dolore con tutta la sua voglia spermatica generatrice e copulatrice con il mondo. Ma mi chiedo se il dolore non ci surclassi. Ho letto di recente lo splendido Storia di mia vita. Memoir di un senzatetto polacco che vive a Roma dagli anni Novanta, si chiude con una frase che riutilizzo volentieri, e che mi sembra adatta:
Qui voglio finire mio racconto, perché
ho sofferto troppo.
*Marco Sbrana, nato a Milano il 26/03/2003, frequenta c/o la Scuola Mohole di Milano il corso di Scrittura Creativa Avanzato. Sta approfondendo studi sulla narrativa Americana del ‘900 (in particolare McCarthy, Faulkner, Carver). Quanto agli studi di cinematografia, sta lavorando a ricerche su F. Fellini, P. T. Anderson, D. Lynch, e i fratelli Coen. Ha scritto un romanzo sui disturbi mentali e le strutture sanitarie, oltre a diversi racconti e poesie. Al momento, la sua produzione è inedita.

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