Dopo Mahmoud o l’innalzamento delle acque, Antoine Wauters torna a sperimentare con la forma romanzo creando un’opera poetica e politica; voci di un coro che, in un oscillare continuo tra rabbia e speranza, tra furore e compassione, descrive questo nostro mondo senza infingimenti.
«Ecco perché siamo qui, perché siamo entrati. C’era la luce e volevamo parlare». È questo il desiderio che accomuna i personaggi de Il museo delle contraddizioni: giovani senza più speranze o ideali, anziani che invecchiano nelle case di riposo sognando la fuga, madri che non vorrebbero più essere tali, agricoltori rovinati dai regolamenti europei, ex pianisti, scultori, poeti trasformati in operai dalla necessità. I diseredati e disadattati di tutto il mondo, che improvvisamente prendono la parola per riappropriarsi di un discorso negato, svilito, privato di ogni significato dalle banalizzazioni e semplificazioni manichee del presente. Sono personaggi che parlano di sé stessi e per sé stessi, a un giudice, a Dio, al lettore, in questi monologhi in cui si entra in punta di piedi come in altrettante stanze di un museo. Un museo della contraddizione in cui nessuno è costretto a una scelta di campo; in cui si è liberi di lottare ma in tranquillità, di trovare un lavoro anche se non c’è, di costruire senza saper usare un martello, di disprezzare i soldi pur desiderando averne. Un museo dove le guide sono illustri, dal Barone rampante di Italo Calvino alle poesie di Sylvia Plath, da Roland Barthes alle opere di Verdi, e tutte puntano il dito contro le incoerenze del presente, amandole sia pure incolpandole, dipingendo il ritratto di una generazione che rivendica il proprio diritto allo spaesamento.
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