«Nel 1947 avevo abbandonato il progetto di scrivere. Ero diventato un altro per rimanere in vita.»
Reduce
da Buchenwald e desideroso di fissare sulla pagina la sua tragica
esperienza, Jorge Semprún, allora giovane intellettuale, si trova di
fronte a un dilemma: raccontare la morte vissuta (sì, perché nel lager
la morte si viveva) o aprirsi alla vita del «dopo», dimenticare la penna
(che alla morte riconduce), concedersi a un'esistenza fatta di impegno
politico, di amore, ma anche di quotidiana banalità. «La scrittura o la
vita» è la storia di questo dilemma e al tempo stesso il suo
scioglimento: dopo vari libri che affrontavano in qualche modo il tema
dell'universo concentrazionario, Semprún è riuscito a darci una
completa, sconvolgente testimonianza sulla realtà del lager. Ed è a
Primo Levi (cui lo scrittore spagnolo dedica un capitolo della sua
opera) che il ricordo del lettore italiano potrà riferirsi; poiché,
nonostante le molte differenze nell'esperienza vissuta (Semprún fu
infatti deportato come resistente francese, come «politico») e
nell'elaborazione letteraria dell'esperienza stessa, un tema echeggia
anche in queste pagine: come sarà possibile far credere agli «altri» che
un tale scempio sia stato commesso?
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