Negli anni Settanta, grazie agli «autonomi», l'alto vicentino smette di
essere il dormitorio all'ombra delle chiese del Veneto tradizionale. Il
territorio cambia di segno e diventa un luogo dove si desidera e si
pratica una vita diversa, ci si conosce e si creano legami di
solidarietà che poi resisteranno anche a una dura repressione. Qui
nascono i «Gruppi sociali», dove la militanza è amicizia e l'amicizia è
militanza. E per tutte le ventiquattro ore della giornata si è
militanti, in quelle periferie che invece di essere i luoghi della
riproduzione dì una vita venduta alla fabbrica diventano i luoghi dove
prendersi quello che serve a una vita degna di essere vissuta. Nella
sostanza, si è trattato della prima generazione di giovani, e
giovanissimi, che hanno scelto ogni mezzo utile a evitare il lavoro di
fabbrica a cui i loro padri erano stati incatenati; la prima a
dimostrare che si poteva essere comunisti senza passare per l'inferno
della fabbrica. Tant'è che per sottrarsi al suo destino quei giovani
«scansafatiche» e pieni dì desiderio, come migliaia e migliaia di loro
coetanei in tutta Italia, arrivarono a imbracciare il fucile. Ma in
quella scelta così radicale ci sono aspetti che meritano attenzione:
nessuna deriva militarista e nessun «pentitismo». Perché non si è
passato il confine della «porta stretta» dell'omicidio politico, ma
soprattutto perché il radicamento sul territorio, i rapporti amicali,
una militanza modulata sulla profonda conoscenza dei luoghi della lotta
hanno permesso un'intelligenza dell'agire politico - caso unico - che è
riuscita poi ad attraversare il secolo portando con sé la voglia di
continuare a lottare.
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