Ovunque, tra i paesi democratici, sotto i colpi di crisi finanziarie
ricorrenti, migrazioni incontrollate e crescita stagnante, si sta
insinuando un dubbio sempre più persistente. E se il nostro sistema
democratico, che ci ha portato progresso e stabilità, non fosse più la
forma di governo migliore per affrontare i cambiamenti e le sfide del
XXI secolo? È, oggi più che mai, una domanda fondamentale. Tanto più,
visto che ad ogni voto si erode la partecipazione degli elettori e
montano pulsioni centrifughe e populiste, in Europa e negli Stati Uniti.
David Runciman, tra i più ascoltati studiosi di politica del mondo
anglosassone, non pensa che la democrazia sia finita. Piuttosto,
sostiene che stia soffrendo – questo sì – di una «crisi di mezza età».
Sì, la democrazia è spesso disordinata, lenta e inefficace. Sì, gli
elettori a volte scelgono governanti impresentabili o oltremisura. Sì,
la democrazia in questo momento storico sembra particolarmente stanca e
non gode di buona salute. Eppure, nonostante tutto, c’è ancora qualcosa
di speciale in questo sistema imperfetto. Uno dei suoi grandi meriti è
la capacità di autointerrogarsi sui propri limiti e di correggersi in
corsa, come nessun’altra forma di governo. La democrazia come la
conosciamo non cadrà, ci dice Runciman, per un colpo di Stato, né a
causa della rivoluzione digitale, o in seguito a una catastrofe
climatica o nucleare; paradossalmente sembra che l’aspirazione delle
comunità umane sia sempre progressiva e che con il tempo vada sempre,
inevitabilmente, ad assestarsi verso un sistema che oggi è dato per
scontato. L’ondata populista, il trumpismo, le tentazioni illiberali, la
reductio ad absurdum della politica, le risse su Twitter non saranno la
fine della democrazia.
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