Manlio Sgalambro
si dimostra una volta di più acuto conoscitore del pensiero filosofico
occidentale e fine maestro di generi: dalla descrizione all’aforisma,
dall’argomentazione sottile al dialogo,
Della misantropia (Adelphi, 2012) è un breve saggio – giacché così l’autore
stesso apprezzerebbe che lo si definisse, come si desume da alcuni passaggi –
che s’inerpica per sentieri impervi nel cui attraversamento (mai risoluzione né
scacco definitivo) si consegnano a nuova riflessione temi da sempre dibattuti,
ma rinvigoriti dall’originalità di un orizzonte critico che restituisce al
soggetto la propria facoltà di opposizione.
Della
misantropia è, in tutte le declinazioni, opposizione
e insieme pretesto per dar vita a un “pessimismo creativo” che, nel panorama di
macerie del presente, vede un’occasione di riscatto e di riappropriazione,
poiché io – secondo Sgalambro – non sono solo un ens, ma anche un habens e,
in quanto habens, mi appartengo e non
posso, costituzionalmente, essere rappresentato da nessuno. La politica e la
religione, considerandomi semplicemente un “essere umano” mi hanno depauperato
della possibilità di far parte per me stesso collocandomi all’interno di un
gregge (e qui Nietzsche suona davvero il sassofono), di una societas che mi vorrebbero contento di
essere rappresentato. Tuttavia, io sono irrappresentabile, poiché la
rappresentanza politica e religiosa passa attraverso regole stabilite da altri
che non hanno la benché minima nozione delle idee di cui sono possessore.
Il concetto di
possesso, tanto svalutato da molti filosofi e asceti, è qui rivalutato in senso
intellettuale: se Schopenhauer, ricevendo l’influsso delle Upanishad, asseriva che il possesso è figlio della Wille, Sgalambro restituisce dignità
all’avere ponendolo in relazione alle idee, queste ultime intese non
nell’accezione esclusivamente platonica di Enti-modello, né in quella
psicoanalitica di complessi. Le idee che io possiedo sono manifestazioni della
mia autonomia cogitante. Se Cartesio parlava d’Idee innate, le idee cui si
riferisce Sgalambro sono “i miei attributi”. Lungi dall’essere scollati dal mio
essere, questi attributi mi appartengono: l’ens
e l’habens non entrano in conflitto,
ma si coniugano per respingere la minaccia incombente del fondamentalismo e
della tirannide. Alla luce di quanto detto, la misantropia è una risposta
ragionevole all’ignorante arroganza del potere che celebra costantemente se
stesso – idem dicasi per la religione – e chiede di essere adorato in quanto
detentore di una risposta ai bisogni. Quali siano questi bisogni decantati al
punto tale da cadere nel patetismo ognuno lo ignora, mentre ciascun individuo
sa di non voler essere affatto governato, benché le masse implorino il migliore
dei governi possibili: qui Freud avrebbe buon gioco nel porre in luce la libido della folla. Una libido che, in opposizione a Le Bon, il
padre della psicoanalisi preferiva individuare in un istinto sessuale dapprima
frustrato e, successivamente, sfogato nell’aggregazione in maniera ferina e
becera. Un motivo in più per essere misantropi.
In realtà, siamo
partiti dalla fine e, come si è detto in precedenza, la misantropia è un
pretesto, in quanto non è solo di odio dell’uomo per il suo simile che qui si
parla, ma anche di un contemptus Dei
che costituisce – o dovrebbe – l’abito mentale di una nuova teologia, anzi di
una “moraletta sulla teologia” come l’autore la definisce, parafrasando le
parole di Adorno. Nel corso dei secoli, filosofia e teologia si sono incontrate
infinite volte: fino a Kant? No, anche oltre, perché l’uomo non ha mai smesso
d’inventarsi un atteggiamento di fronte a Dio o, almeno, alla sua idea. La tesi
di Sgalambro è che l’interpretazione proposta da Adorno del costituirsi del
pensiero filosofico occidentale intorno alla prova ontologica dell’esistenza di
Dio debba spostare il proprio baricentro su un’altra questione fondamentale:
ossia, l’Io teologico. Più semplicemente – ma la questione si complica, invece,
di molto – il teologo. Verrebbe a questo punto da chiedersi dove siano le
complicazioni e si risponderà che, come sempre, esse risiedono nelle
distinzioni: da un lato, il teologo della tradizione che, seduto al suo tavolo
da lavoro ingombro di libri e appunti, trova Dio; dall’altro il teologo che
vive e si avvede di attribuire la colpa della sua nascita a Dio. Da ciò, il
disprezzo, la radice dell’empietà. L’ateo non nutre disprezzo nei confronti di
Dio: non vi crede. Il teologo che viviseziona l’idea di Dio, come uno
scienziato agirebbe su una cavia, giunge alla conclusione dell’odio verso
l’unica fonte di vita che gli si propone dinanzi. La dottrina stessa,
mirabilmente esposta nelle Summae dell’Aquinate,
è interpretata alla luce dell’odio: dalla
maledictio in ordine ad Deum asserita da Tommaso in virtù della
disposizione al male insita nell’uomo (quasi un a priori kantiano), si passa
alla maledictio Dei, nell’àmbito
della quale, gioca un ruolo chiave la sfiducia: torna il credere a Dio, invece del credere in Dio (Agostino), là dove le preposizioni
hanno un significato nel senso del distacco e dell’unità. Posso credere in Dio
cercando, come accade a Santa Teresa d’Avila, di accoglierlo in me così che io sia
accolto in Lui (l’unione mistica), ma il polo opposto a tale unione risiede
nello scacciare Dio dal mio cuore per riservargli l’odio che si merita, avendo
permesso la mia nascita (e, di conseguenza, la mia infelicità?). L’odio verso
Dio è tutt’altro che un atteggiamento di comodo: la teologia tradizionale che
tentava di procurare una spiegazione alla sofferenza era già stata posta a dura
prova nei secoli e ricevette un colpo semi-mortale in seguito agli orrori di
Auschwitz. Questa teologia che tutto incasellava in un disegno prestabilito era
– ed è per quanti ancora vi si affidano – ben più comoda dell’odio verso Dio
che, però, non allontana il teologo dal pericolo della santità, poiché ogni
disprezzo, sia esso rivolto verso il mondo o verso l’Ente supremo, è una forma
di rinuncia, una sorta di rigorosa ascesi che finisce per nientificare il
pensiero in un altro dogma. D’altronde lo stesso Dio è stato considerato, nel
corso del cammino filosofico, un Ente che, nel momento della creazione,
annienta se stesso o – esattamente all’opposto – un Ente che, per esistere, ha
bisogno non solo del proprio servo, ma anche delle parole di fede del servo
medesimo, pertanto, si ravvisa in quest’ultima tesi quella definizione già in
auge presso i medioevali di Dio come relazione, l’unica categoria che gli si
potesse attribuire, benché la relazione si esplicasse con un non-essente
considerando che gli attributi potevano definirsi solo per via negativa.
Dovranno trascorrere secoli prima di arrivare al Deus sive Natura spinoziano che, ugualmente, incapperà nel grande
interrogativo sull’unità degli attributi: Sgalambro rammenta in proposito la
nozione di “parte” precisando, però, che attributi e parti non sono la medesima
cosa. L’attributo può anche essere una modalità (per esempio, la relazione), ma
la parte è un vero e proprio frammento del quale Dio sarebbe composto e, se si
provasse a rispondere che Dio è sostanza semplice, allora non si vedrebbe come
la sostanza semplice, secondo le tesi di Cartesio e Spinoza, affetterebbe
l’uomo.
Anche la critica
a Kant e Heidegger – da parte dell’autore – è serrata: il primo avrebbe fatto
rientrare Dio dalla finestra attraverso la “deduzione soggettiva”, mentre il
secondo, nei Beiträge, avrebbe
propugnato la reticenza e il silenzio dinanzi al Sommo Ente. Esattamente
l’opposto dell’atteggiamento del nuovo teologo, testimone di un’opposizione
profonda e radicale a Dio e alla propria nascita. Nella radicalità sta, però,
la tanto paventata forma di santificazione.
Nella parte
conclusiva, Della misantropia è
intessuto di un dialogo fra Epicuro e Colote in cui è sostanzialmente rivista
l’idea che gli uomini possano procurarsi felicità e piacere compiendo il bene
che, peraltro, non appartiene alla loro costituzione di viventi i quali, per
addolcirsi l’esistenza, spesso cagionano volontariamente il male ad altri.
L’attenzione di Epicuro è fissa su una pietra: solo le pietre – egli dice –
sono felici nella loro impassibilità durante le tempeste e in ogni sorta di
calamità naturali. La felicità è questa impassibilità, l’unica che ci sia
concessa su questa Terra. Una profonda rilettura dell’epicureismo da parte di
Sgalambro che non sembra, però, immune dalla contaminazione dello stoicismo
senecano: quando non si può mantenere l’impassibilità – scriveva Seneca –
occorre uscire dalla vita e farlo il più presto possibile.
Verrebbe da
chiedersi, in virtù delle pagine conclusive di questo saggio, che ammiccano a
un certo assolutismo nietzscheano, se Sgalambro fosse in attesa di lettori
(lontani, inafferrabili e facili all’oblio) o di discepoli capaci di
abbracciare una filosofia, sapendo che si tratta della filosofia di cui avevano sempre avuto sete: la filosofia –
conclude Sgalambro – rende “nemici del genere umano”. Un genere, si potrebbe
aggiungere, piuttosto effimero che ha rinunciato da tempo immemorabile alla
verità chiedendo che gli fossero imposti i paraocchi del potere. Il “pessimismo
creativo” di Sgalambro è ravvisabile non solo nel rovesciamento del rapporto ens-habens, bensì anche nella
possibilità – non vogliamo definirla “speranza” – che l’habens trovi riscatto dal piattume generale in cui siamo
impantanati: il discepolo incarna, forse, questa possibilità, tuttavia senza
ergersi latore di un messaggio universale. Perché la filosofia – scrive
Sgalambro – è per pochi, per pochi la capacità di dirigere i concetti, come un
maestro d’orchestra, dando vita a un’opera degna di questo nome.
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