Se Aristotele ha ragione, la poesia, non la storia, si avvicina alla
filosofia, perché la poesia tende a rappresentare l’universale, la vita, la
storia il particolare: «La vera differenza è questa, che lo storico descrive
fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia
è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende
piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare. Dell’universo
possiamo dare l’idea in questo modo: a un individuo di tale o tale natura
accade di dire o fare cose di tale o tale natura in corrispondenza alle leggi
della verosimiglianza o della necessità; e a ciò appunto mira la poesia,
sebbene ai suoi personaggi dia nomi propri». (Aristotele,
Poetica)
Ecco che le poesie di Stefano Pini raccolte nel libro Anatomia della fame vertono
sull’universale, inneggiano alla vita che coincide con una possibile filosofia
di vita.
È questa la poesia in cui Pini descrive la vita vivisezionandola, dal
greco “ανά τέμνω” che significa
appunto tagliare, vivisezionare, congiunta con la metafora della fame come
esperienza vissuta nel tempo, come metafora dell’esistenza di ognuno di noi che
deve avere fame di amicizia, devozione, amore nei riguardi dell’esistenza di
una donna, di un amico o di un fratello. Compare un immediato contrasto tra
bene e male, sentimento e paura, vita e
morte che si intersecano magistralmente nell’intera raccolta.
Pertanto, ritengo innanzitutto opportuno suddividere, “vivisezionare”
l’opera in quattro parti: la prima ha inizio con una brevissima disquisizione
sul termine “dispersione” e con un aforisma di F.S. Fitzgerald: «Tese le
braccia al cielo cristallino, splendente. Conosco me stesso - esclamò - ma
nient’altro»; questa espressione del celebre scrittore introduce i versi sull’esistenza individuale, su se stesso “nosce te ipso”: l’insegnamento socratico
che esorta a trovare la verità dentro se stessi anziché nel mondo delle
apparenze. È evidente inoltre, una stridente condizione del poeta calata nella
realtà, la solitudine che si legge nei versi: «Il giallo delle pareti / è la
cifra di nervi scoperti: / al vento d’ottobre s’affilano preghiere incomprese /
polveri nascoste con troppa cura. / Dentro i rumori del cemento l’equilibrio /
si costruisce di crepe. / Io non ho sostanza ma fiato secco e sudore / come in
bocca appena sveglio». (p. 17). E la solitudine che si confronta con il tutto
rappresentato dalla notte che richiama la morte. La notte che simboleggia il
senso materno, la protezione, qui invece assume il significato della morte,
della non vita. La metafora della morte, per dirla con Heidegger, è vista come
ultima possibilità dell’esserci. Il poeta sembra qui concretizzare l’esistenza
autentica, ossia l’accettazione della propria finitezza.
Egli infatti non ha paura della morte, richiamo a tal proposito la
definizione di Heidegger “la morte come pura e semplice impossibilità
dell’Esserci”. Così la morte si rivela come la possibilità più propria,
incondizionata e insuperabile e infatti si legge: «La nebbia scivola a terra
invisibile / sporca la campagna in opera / le nostre storie vietate, fermo
immagine / interrotti alla finestra, il tendaggio obliquo / incapace di
polpastrelli / sulla verità». (p. 20). Ed ancora nei versi : «Svilito / il
tempo dei notturni rapaci / il desiderio del naufragio / ... », (p. 21)
riecheggia inoltre la metafora del naufragio tipica di esistenzialisti come
Jasper, Heidegger, Sartre, Kafka, Leopardi.
Mentre la morte esplode nella poesia: «I monologhi provati allo specchio
/ maschere sempre diverse, stremate/ solitudini a divagare / di una dialettica
rimossa. L’assenza è la qualità prima della morte, ripeto: voi, e non io». (p.
22). Irrompe la morte come un velo sottile adagiato dolcemente su di un corpo.
A tal proposito, può balzare alla mente il ricordo del pensiero di
Leopardi: «Terribile e awful è la
potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri come chi
ha il coraggio di morire». (G. Leopardi,
Zibaldone, 4391, 23 settembre 1828);
così come la metafora scotellariana “Penna e rasoio” in cui incidono i versi
del poeta e recidono, con occhio fenomenologico, l’esistenza individuale e
collettiva nella problematicità della vita.
Tuttavia riprendendo la suddivisione delle parti, enucleo la seconda
parte il cui incipit è dedicato ad
una grande poetessa contemporanea Alda Merini: «Non sono e non sarò mai una
donna addomesticabile». E qui dall’esistenza individuale si sposta l’attenzione
sulla donna e si leggono i sublimi versi: «Ridi» / «L’ordine dato alla terra
per la carne colma le distanze / le tue labbra chiamano il sipario. / Serrande
alzate, la materia scossa» (p. 34) e persiste la magnificenza della donna nei
versi: « ... / Il destino danza lungo una ferita verticale. / Ogni tuo passo è
predizione, scrive regole il mio germe / ti ascolta la pelle a occhi serrati».
(p. 35).
Pertanto, nel particolare emerge l’inquietudine, non a caso il poeta
adotta l’espressione di Albert Camus: «L’irrequietudine nasce nel cuore dei
vivi». Così si apre la terza parte con un poeta inquieto nel descrivere la
fame, l’epidemia della peste, la distruzione all’orizzonte che sembra evocare
la magia descritta nell’Infinito del Leopardi, sino alla finitezza del ricordo
di un amore: « ... / Allungo le mani sulla pelle, / la carne cede ogni punto in
cui manchi». (p. 53).
Infine, Stefano Pini conclude con ovvia provvisorietà, riportando la
mente ad un celebre passo di Nietzsche: «Così parlò Zarathustra e abbandonò la
sua spelonca, ardente e forte come un sole mattutino che esce da scure
montagne». In tal modo fiorisce la speranza di salvezza dalla peste cercando la
luce, la verità: «Vorrei essere grande» / «Il treno raccoglie giochi di luce /
una voce che dev’essere stata mia. / Nel letto della pianura il caldo / filtra
dai finestrini, la sera / sembra non arrivare mai». (p. 73).
Ed inoltre si legge ancora nei versi: « ... / Sappiamo delle
peregrinazioni sole / nell’aria lattiginosa del mattino: / per questo possiamo
danzare, non credere / fermi nell’ultima fila di un teatro / la scena da
inventare». (p. 75). È ricercato l’attributo “lattiginoso” dato all’aria,
bianca e densa come il latte.
Appare come un bellissimo dipinto
reale e surreale nello stesso tempo.
Le poesie di Pini sembrano incredibilmente metafisiche, una non realtà
che permane sull’esistenza degli esseri umani, versi in cui traboccano
metafore, contraddizioni, conflitti che si descrivono e si accettano nell’intera
raccolta Anatomia della fame.
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