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martedì 25 settembre 2012

“L’inferno del romanzo. Riflessioni sulla postletteratura” di Richard Millet (Transeuropa Edizioni). Intervento di Vito Antonio Conte



Ci vuole anche un libro come questo. Di uno scrittore che non conoscevo. Che la dice tutta sulla postletteratura (su chi scrive ignorando chi e cosa lo ha preceduto…). Dal suo punto di vista. Ovvio. Ma tutta. Dai suoi punti visuali, anzi. Di scrittore. E di editor. Di chi predica e cerca di praticare purezza. E di chi finisce, in un modo qualunque, per “omologare” quella altrui. Uno scrittore francese. Del quale –probabilmente- non leggerò altro. Ché leggerlo significherebbe rinverdire le mie (già scarse) conoscenze della lingua francese. E, all’evidenza, approfondirle. Rimangono lì dove sono, invece. In un angolo remoto dei miei studi liceali. E in un altro, ancor più remoto, di qualche mese della mia prima infanzia. La Francia e la straordinaria Prof Consenti rimangono ricordi. Adesso, non ho voglia né tempo per la lingua francese. Dunque, non leggerò Richard Millet! Se lo facessi nelle traduzioni italiane non potrei apprezzarlo (o disprezzarlo) per quel che per lui sembra importare di più: la qualità della lingua! Al punto da far coincidere lo stile con la qualità letteraria della lingua. Sembra che null’altro importi. Ma “L’inferno del romanzo. Riflessioni sulla postletteratura”, Transeuropa Edizioni (2011, pagine 220, € 18,90), con una bella “nota” di Carlo Carabba, non è un romanzo e, quindi, non mi sono perso niente. A meno che nei frammenti in cui il libro si snoda, spesso capocchiosamente, non voglia rinvenirsi un qual che del romanzo… Qualcosa, di sicuro, ho guadagnato: un pensiero onesto e scomodo, onestamente espresso in 555 momenti in forma di aforisma, reiteratamente urticante, com’ogni verità! Credo, diversamente da Millet e –paradossalmente- in sintonia con lo stesso, che la lingua (proprio come tutto il resto) non è immune al passaggio del tempo e del tempo è espressione. Credo, anche, che la supremazia di una lingua sulle altre non cancelli (né possa cancellare) queste ultime. Che la diffusione planetaria dell’inglese segni la morte del romanzo è ancor meno vero. Che possa obliare le altre lingue è una possibilità che si deve evitare. Che l’editoria internazionale, con l’uso dell’inglese nelle traduzioni…, “riduca” la probabilità di sopravvivenza (o, addirittura, stia celebrando il funerale) del romanzo è opinabile. È, invece, fuori dubbio che il francese è sempre meno utilizzato come lingua universale. La “grandeur” è sempre più piccola. E questo, vivadio, non è morte d’uomo! C’è, com’è sempre stato (e -forse diversamente- sempre sarà), che la letteratura è una sola e se il romanzo ha fallito, non è finita la letteratura. C’è che si spendono troppe parole. C’è che bisogna penetrare il mistero della parola. E re-imparare a usarla. Senza arroccarsi nel fortino di quel che resta della parola. Senza tentare sortite in terreni estranei. Senza inventarsi il niente. Ce n’è già abbastanza dappertutto. Mancava, invece, una denuncia (che a tratti rasenta l’improperio) verso la letteratura e la superfetazione editoriale attuale che fornisse spunti di riflessione e approfondimento su: perché si scrive e si pubblica quel che si scrive e si pubblica? E dintorni! “Scrivere: un segreto che invoca il segreto”, è una bella risposta, ma ha già un padre (aforisma n. 555)! Ne avete altre?





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