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ritratto in versi di Marthia Carrozzo, di quella che fu, nella penna della
Corti, la più bella donna di Otranto, capace di calamitare, al suo passaggio,
ogni singolo sguardo, diviene, in questa Trilogia di Idrusa, appunto, un
purissimo richiamo all'acqua che ne computa il nome, senza dimenticare il sale,
stemperando in suoni, in echi di quel mare da cui nasce e a cui torna e vuol
tornare, la forza d'un canto di guerra e d'amore, che ingaggia un corpo a corpo
col mondo intorno, col mondo tutto con cui vuole e sa dialogare, ricercando in
esso, come in un unico grande banchetto totemico, la pelle amata. "Sei
brace azzurra, luce lattea che mi scalda. / Che fa ferita, che mi scuce e
appresta a resa. / Sei la ferocia della pelle sulla pelle. / Il credo unico che
sgrani tra i miei seni". Un poemetto per voce e fiato, che sfugge agli
occhi che ne inseguono il ritmo incalzante sulla pagina scritta, che nella pagina
non vuole e non sa stare, irriverente e viva, "fatta d'arcobaleno"
come fu la bella Idrusa, che di bellezza fa il suo baluardo, la luce che ne
ammanta le movenze e ne assolve ogni colpa, perché, citando l'inusuale titolo
di quest'opera: Di bellezza non si pecca eppure. E di bellezza, allora, non
pecca, ma osa, Idrusa, al limite della colpa, se colpa vi sia in faccende
d'amore, perché non si possa mai dire di lei che non abbia vissuto, che non
abbia tentato e creduto. Un canto di vita, questa Trilogia di Idrusa, sensuale,
di una sensualità cosciente cui già ci aveva abituato Marthia Carrozzo, nel suo
scrivere del corpo senza lesinare parole, ma usandole e osandole, nominando,
come nella Genesi biblica, in una scelta lessicale attenta e accurata, mai casuale,
ogni parte, ciascuno dei sensi con il nome che gli è proprio. Un canto che
riprende la modalità formulaica degli antichi rapsodi, perché alla poesia
spetti il tornare al proprio ruolo, centrale, di cassa armonica di un sentire
comune. Perché Idrusa è Idrusa, certo, ma è tutte e ciascuna insieme: creature,
donne e uomini, al cospetto del proprio stesso corpo, per imparare da lui solo
le leggi di un sapere troppo spesso messo a margine. «Ogni verbo è prima nei
nostri muscoli, che nella nostra lingua», dirà meglio Lello Voce, nella
Prefazione, e allora, anafore, allitterazioni, ripetizioni incalzanti sembrano
suggerirci, lungo lo svolgersi per Stanze di questo piccolo poema, la necessità
estrema di riappropriarci del nostro suono, della nostra capacità di dirci e
consegnarci in una voce che non sia vuoto e flebile assenso, ma consapevolezza
piena di sé in ogni piega del nostro sentire e mostrarci, così come per
l'Idrusa d'antica memoria ("non mi lasciava mai la volontà d'essere
bella"). "Solo per smettere, soltanto, e non mentire. / Per non
mentire, mentre ancora è troppo presto." Ciò che se ne coglie è, allora,
«Una litania di lussuria e abbandono, di libertà e desiderio, una serenata al
rischio e all’acrobazia, una melopea per ogni abbandono e per ciascuna
ribellione». (Lello Voce), perché Eros è fuoco purissimo, mai volgare, che
parla unicamente alla bellezza e la bellezza, come la bella Idrusa, procede
scalza di piedi e voce a dirci il «Peso specifico del mare nell'amore», a
mostrarci che è ancora possibile.
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