Due libri consequenziali e complementari di trasversale congiungimento. Sono
i recenti “12:47 strage in fabbrica”, di Saverio Fattori e “Le monetine del
Raphaël”, di Franz Krauspenhaar. Perché, innanzitutto, il protagonista del
romanzo di Fattori rifiuta e rende diniego allo stato di cose, mentre il
protagonista del romanzo di Krauspenhaar accetta un compromesso al quale in un
certo senso, seppur forse soccombendo alla possibilità della fama, avrebbe
potuto evitare. Ma procediamo con ordine. Premettendo che questi due decisivi
romanzi escono non a caso dai tipi di Gaffi Editore in Roma e sono conservati
nella brillante collana GODOT. “Così vennero gli anni Ottanta: rimasti a metà
bottiglia, quegli anni; e Craxi, ubriaco fradicio, prende la braciola di maiale
con le mani, (…) e muore”. A pagina 69 l’immagine creata da Franz Krauspenhaar,
che lo ricordiamo come l’autore dell’intenso e ‘intimamente’ feroce “Era mio
padre”, può rappresentare la premessa temporale, nel senso di spiegazione del e
nel periodo storico d’entrambi, addirittura, i libri - quindi sia quello di
Fattori che quello dello stesso Krauspenhaar. Perché l’Italia raccontata dal
pittore delle “monetine”, Fabrizio Bucchi, a Milano è propriamente quel che
diventa e poi resta della Milano-da-bere di craxiana/socialista memoria, ma per
l’operaio di Cattedra che lavora in un’azienda non proprio rossa però proprio rosa
dell’Emilia Romagna è un contorno derivante dal contesto nazionale e non solo,
appunto (perché a Cattedra è arrivata la socialdemocrazie resistente e non il
piccì dell’emilia “la rossa”). E, per aggiunta, senza pericolo di risultare
sovrabbondanti, possiamo spiegare quanto il popolo – elettore – di F.
Krauspenhaar somigli alla classe operaia di S. Fattori. Spesso, insomma,
ipocrita e irriconoscente e, specialmente, senza spina dorsale ma prima di
tutto opportunista e malato d’individualismo dell’interesse personale oltre che
d’un razzismo persino esibito. Grazie a un’estrema somiglianza dai piani
strutturali e di scelta stilistica delle opere in oggetto, inoltre, possiamo
dire che il protagonista narrante del romanzo post-industriale “12:47 strage in
fabbrica” è un tecnico del Controllo Qualità di nome Ale e alienato dal lavoro,
che si troverà a non comprendere il motivo della sua retrocessione aziendale a
livello d’operaio semplice: un ridimensionamento che lo fa impazzire. E dunque
l’intera azienda, visto che il responsabile dell’atto non si riesce a
rintracciare, diventa colpevole. Con una serie, d’altronde, d’accuse
formalizzante puntualmente da questa voce narrante. Eroinomane come molti
operai nella realtà diventano cocainomani, dunque, il nuovo operario od operaio
nuovo decide di condannarsi condannando tutti quanti. Eppure senza rientrare
nel sistema, si diceva all’inizio, che non condivide in nessuna aspetto. Mentre
il pittore Bucchi che parla nelle monetine, s’esprime in quanto consapevole, e
lo diventa a caduta del regime craxiano avvenuta e/o mostrata, d’aver ottenuto
il peggioramento qualitativo della sua arte in virtù degli accoppiamenti avuti
col Potere; e scopate o non scopate, quando dentro si sta male si può solamente
combattere il demone della rassegnazione. Krausphenhaar nella narrazione
s’ammala di nuovo della sua scrittura intransigente e iraconda. Sorridendo
amaro col suo alter ego, che riferisce per filo e per segno ad Angela dove è
convinto, usando parole chiare, d’aver comunque sbagliato. E qui nuovamente
intercetta quell’Ale che si confessa, seppur fino a un certo punto, davanti a
un magistrato. Entrambi però sconvolti dalle rovine delle quali fanno parte.
Siamo e non siamo noi.
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