Pagine

mercoledì 15 febbraio 2012

Il cibo senza nome, di PASQUALE VITAGLIANO (Faloppio, Como, LietoColle). Intervento di Alessandra Peluso


Scevra volutamente da informazioni sull’autore, mi sono accostata con semplicità e purezza allo studio dei versi prodotti da un talento poetico, da uno spirito dionisiaco. Così nella raccolta di versi Il cibo senza nome la mia attenzione è stata carpita dal titolo, insolito per un libro di poesie ma azzeccato per sensazioni che l’autore pare comunicarci. Versi profondi, non convenzionali: ecco appunto la non convenzionalità di dare un nome, di definire ciò che è “valido” per convenzione, da ciò che è “valido” per natura.  Pertanto, il “cibo” può essere inteso come nutrimento del corpo o dell’anima o come metafora della vita. La vita che è distinta da Pasquale Vitagliano in “Dentro” e “Fuori”, in un perfetto parallelismo psico-fisico, in cui il mondo interiore dell’autore corrisponde con il mondo esteriore, che affascina, coinvolge, tormenta.  La musicalità dei versi alternata da allitterazioni, assonanze, pause, segna lo scorrere del tempo come un metronomo che segue il proprio ritmo lento, andante, adagiandosi alla vita: «I libri non letti, / gli abiti gettati sui letti / sono corpi di pelle, / la polvere dei cuscini, la posa del caffè / ... / Assomiglia a se stessa / la vta che raccontiamo / per sentirci diversi dai libri, / ... ». (p. 13). Una vita che esecra un duttile congedo per un abbandono non voluto, non cercato, ma vissuto nella certezza di una vita apocrifa, che non tramanda la propria verità palese, ma «resta pensile / dentro una docile rete che pure / i denti non squarciano». (vv. 14-18, p. 14). E ancora si avverte il vuoto, la solitudine di un uomo senza la sua amata, così come il vuoto di una casa che non ha più odore, non produce suoni: «non si sentono passi, / una casa rimessa, i cartoni, le scatole di cibo senza nome». Nel cibo senza nome intravedo il deserto di un uomo senza amore, una landa che si tinge d’assurdo, un naufrago privo della sua rosa dei venti. Il vuoto incolmabile “Dentro” comporta un vivere, perpetuare la propria vita nel dolore, nella solitudine con l’esterno “Fuori”, nella necessità di raccontare, raccontarsi, comunicare all’altro con l’altro. Si imbatte nella descrizione di una villa moderna scontrandosi poi con la visione prospettica di un arco romano che va oltre il metafisico: «Che ci fa questa villa stagionale, / sembra una velina dentro il telegiornale, / a spezzare la visione prospettica di / questo arco romano più metafisico». (p. 31). Pertanto, appare delinearsi un senso di nausea di fronte alla gratuità delle cose, un uomo condannato ad essere libero, tipico dell’esistenzialismo.  E leggendo i versi dell’autore, la mia memoria non può non richiamare il pensiero sartriano. Sartre ribadisce che l’uomo una volta gettato nella vita, è responsabile di tutto ciò che fa del progetto fondamentale, cioè della sua vita. «E nessuno ha scuse: se si fallisce, si fallisce perchè si è scelto di fare fallimento».  La “nausea” di Sartre non è lontana dall’“angoscia” di Heidgger così come il “tormento” di Vitagliano. E si legge: «Mi vedo senza più fiato / nelle parole, vedo / l’addome che vibra, la vena/ nel collo risuona di cose / non dette e tenute a morire / nel ristagno dei saluti che/ ti devo giorno dopo giorno. / ... / Attendo al terremoto / buono, buono, / immobile ed esausto, / in lista d’attesa». (p. 41). Ed ancora si legge: «I rintocchi dei secondi / non risuonano mai all’unisono ma / piovono ognuno per sè / sulle ore che passano zitte. /... / Ed invece vorresti essere tu / ad aggiustare con gli occhi il tempo / che non suona assieme a quello / che senti dentro questo dentro questo punto angusto, senza un’ora che sia giusta». (p. 34). Infine, mi piace vedere il disascondimento dell’essere nel linguaggio, autentico della poesia come afferma Heidgger: «Il linguaggio è la casa dell’essere. In questa dimora. I pensatori e i poeti sono i guardiani di questa dimora». Per tal motivo, concludo richiamando i versi di Pasquale Vitagliano: «Anche se mi parli, tu taci / il silenzio che hai dentro, / tu taci il vuoto prima del verbo, / tu taci il pugno cieco del rumore. / Anche se mi parli, tu taci / il lessico dei tuoi occhi, / tu taci le sillabe traverse, / tu taci i battiti podalici del sangue. /Tu taci, anche se mi guardi. / Anche se taci, io ti ascolto. (p. 38). Idilliaco e portentoso il potere della poesia nell’animo dell’umano.


Nessun commento:

Posta un commento