Con Quasi niente sbagliato Greta Pavan ha scritto un romanzo di formazione, un autentico spaccato generazionale, una storia sull'appartenenza e sull'affermazione di sé che prova a rispondere a una domanda esistenziale: se il male sia ciò che riceviamo o quello che ci portiamo dentro.
Brianza, terra dai confini incerti, paesaggio di
asfalto e capannoni, provincia ricchissima, dove la religiosa devozione
al lavoro sembra essere l'unico parametro riconosciuto per la
definizione di rapporti e identità. Ma per Margherita, nata nel 1990 in
una delle tante famiglie venete emigrate in Lombardia nel dopoguerra, il
benessere è una chimera da contemplare da lontano. Sfiancata dal
susseguirsi di lavori senza prospettiva e a cui sembra destinata solo in
quanto donna, svuotata dalla minaccia costante della precarietà e
svilita da un'umanità ambigua, fatta di personaggi in cui albergano a un
tempo colpa e innocenza, per Margherita rimane solo il sogno della
fuga. Coltiva l'ossessione di Milano, attraente come una terra promessa,
e di un lavoro come giornalista, forse unica possibilità rimasta per
provare a fare sentire la propria voce. E sola alternativa a quella
violenza che, goccia dopo goccia, quasi niente, rischia di trasformarla
in tutto ciò che ha sempre rifiutato. Con "Quasi niente sbagliato" Greta
Pavan ha scritto un romanzo di formazione, un autentico spaccato
generazionale, una storia sull'appartenenza e sull'affermazione di sé
che prova a rispondere a una domanda esistenziale: se il male sia ciò
che riceviamo o quello che ci portiamo dentro.
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