Continuamente trasfigurati da un'incredibile cantilena di
metafore, iconizzati in un particolarissimo espressionismo delle
immagini, si aprono invece i trascorsi di un'intera esistenza, e forse
di più: le vicende politiche di uno studente sacrificato all'identità
africana, la dissoluzione di una famiglia, pestaggi, i ricordi
d'infanzia, le disavventure sessuali, la storia della Rhodesia, le
elucubrazioni artistiche di un intellettuale formato nel bozzolo di una
cultura bianca da cui viene fatalmente attratto e disgustato, e poi i
sogni, gli ideali e soprattutto gli incubi di un vagabondo sconfitto
dalla nascita.
«È un intreccio di racconti in cui
l'autore, cresciuto in una famiglia povera, ha trasfigurato con un
linguaggio unico la sua avventura intellettuale e umana breve e tragica» - Robinson
Al crepuscolo degli anni '70, uno spettro nell'imbalsamato ambiente
letterario di Oxford, Dambudzo Marechera gettava sul foglio alcune righe
che lo avrebbero reso di lì a poco una celebrità e una meteora. "Presi
le mie cose e me ne andai", così rimbombava l'incipit di quel testo: una
sentenza drammaticamente segnata dall'ironia di una dipartita
incombente e inevitabile, dall'Inghilterra e poi dal mondo, come ultima
tappa di un processo autodistruttivo in cui per ogni eccesso della mente
era il corpo a incassare. L'origine di quel vortice soffocante è
custodito nella "Casa della fame", un classico svanito nel tempo. Come
tempestato da una pioggia di pensieri, in questa novella infinita, lo
scrittore protagonista si immerge e riemerge, piomba e si inabissa, in
una memoria spontanea che vivifica e scuote l'impellente decisione di
andare. Ma via da dove e verso dove non sarà mai chiaro.
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