E qualcuno ha scritto che dei
suoi libri può utilmente scrivere soltanto un poeta. È opinabile. Come (quasi)
tutto ormai. Ma (chiunque l’abbia partorito) è un concetto meritevole di
rispetto. Qualcun altro ha (anche) scritto che sono un poeta. Opinabile anche
questo. Di più… Se così fosse potrei, per quel primo qualcuno, scrivere della
scrittura di cui potrebbe occuparsi soltanto un poeta. La scrittura in parola è
quella di Erri De Luca e, in particolare, quella de “I pesci non chiudono gli
occhi” (Feltrinelli Editore, Collana: I Narratori, pagine 115, € 12,00). C’è
che (poeta o grafomane o altro…) di De Luca molto ho letto e dei suoi libri in
più occasioni ho scritto. Ché, prima di ogni altra cosa, mi nutro di letture.
Poi viene la scrittura. Eventuale. Esclusivamente quando necessaria. Come in
questo caso. Ché “Te lo dico una volta e già è troppo: sciacqua le mani a mare
prima che metti il morso all’esca. Il pesce sente odore, scansa il boccone che
viene da terra. E fai tale e quale a come vedi fare, senza aspettare uno che te
lo dice. Sul mare non è come a scuola, non ci stanno professori. Ci sta il mare
e ci stai tu. E il mare non insegna, il mare fa, con la maniera sua.”. Scrivo
in italiano le sue frasi e tutte insieme. Quando le diceva erano scogli staccati
e molte onde in mezzo. Le scrivo in italiano, senza l a sua voce a dirle nel
dialetto sono spente. Iniziava spesso con la – e - . A scuola insegnano che non
si comincia un periodo con una congiunzione. Per lui la frase era la
continuazione di un’altra detta un’ora, un giorno prima. Parlava poco, spazi larghi di silenzio mentre sbrigava le
faccende di una barca a pesca. Per lui si trattava di un solo discorso, che
ogni tanto si staccava di bocca con la – e - , lettera che a scriverla disegna
un nodo. Ho imparato dalla sua voce a iniziare frasi con la congiunzione”. E
anche per me è stato così. Per i miei versi (e non solo) che si aprono con la –
e - . Anche se non l’ho mai detto. Ché certe cose non mi va di spiegarle.
Specialmente se me lo chiedono. Come quella volta, dopo la mia prima
pubblicazione, che un magistrato onorario mi disse: “…sì, però quelle – e - all’inizio”. Era stato amico di Ercole Ugo
D’Andrea, lui. Di versi e di poeti se ne intendeva! E ancora peggio mi va di
ripeterle. Poi, come adesso, capita… e ne parlo. Ché ci vuole attenzione quando
si ascolta. Ammesso che si abbia la capacità di ascoltare. E (anche) leggere un
libro è ascoltare. È come ascoltare l’Autore che parla… Ci vuole attenzione.
Quel che arriva a noi dipende dalla nostra attenzione. Sì, anche da altro.
Sensibilità, per esempio. E ancora… Poi, ognuno ne fa quel che vuole… Ho avuto
molti maestri. Sul mare. Come sulla terra. Nessuno era professore! Ché la vita
e le cose della vita non s’insegnano. E non s’imparano mandando a memoria
qualche nozione. Nessuna nozione contiene vita. Siccome la vita non contiene
nozioni. La scuola, anche e soprattutto fuor d’ogni nozionismo, è altro. E può
insegnare altro. E può essere utile a apprendere altro. Non vita. Un po’ a
vivere, sì. Ma non vita! Le cose della vita s’imparano… traversando l’esistenza
con tutti i sensi allerta e una tasca sempre vuota. E, semmai, si possono
trasmettere. Mai insegnare. È tutta qui la differenza tra dire e fare. Erri De
Luca conosce bene quella differenza. Come la diversità. Ché l’ha scelta. E
praticata. Anche con le parole. Usate sempre con assoluta attenzione. De Luca
le adopera dopo averle tenute nelle mani. Dopo essersele girate e rigirate tra
i palmi. Dopo averne sentita l’esatta consistenza. Dopo averne soppesato lo
specifico significato. Dopo averle annusate. Dopo averle trattenu te sulla
lingua. Nella bocca. E delle parole usate conosce il corpo e l’anima. Quand’era
decenne, nell’estate del ’60 sull’isola d’Ischia, la seconda stava molto
stretta nel primo. Finché non è stato colpito dalla sorpresa del verbo
“mantenere”, cioè fino a quando non ha incontrato qualcosa di talmente grande e
sconosciuto da non riuscire a abbracciarla, a contenerla, a comprenderla.
Finché non ha imparato che “mantenere è tenere per mano” e, dunque, quella
novità, quella meravigliosa novità, non poteva tenerla col suo piccolo corpo,
con le sue sole mani, ma era necessario che la sua mano ne stringesse un’altra.
Lui, bambino che affrontava per la prima volta l’esistenza a doppia cifra (“a
dieci anni l’età si scrive per la prima volta con due cifre”), scopre anche il
contenuto del verbo “amare” tenendo (nella sua) la mano di una ragazzina del
Nord (come lui in vacanza a Ischia). Assaporandone l’alterità. E la diversità.
E il sangue. E il medicamento del suo sorriso sulle sue ferite dopo le mazzate
volute cercate e trovate dei tre bulletti antagonisti... E quel suo corpo che
si spacca e cresce. A contenere tutta quella vita nuova. Immagine –per altro
verso- già vista in “Montedidio” nel corpo di don Rafaniello, il calzolaio
ebreo che in fine mette le ali… E se in “Montedidio” si attraversa il passaggio
dall’età adolescenziale a quella adulta, ne “I pesci non chiudono gli occhi”
l’adolescenza comincia. E finisce con un bacio. Il romanzo s’apre con l’incipit
sopra virgolettato e termina così: “Adesso e qui sta bene la parola fine,
sorella minore di confine e di finestra chiusa”. In mezzo una gran bella
narrazione. Parola dopo parola. Immagine dopo immagine. E, se volete, verso dopo
verso.
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