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mercoledì 8 settembre 2010

Patrizia Caffiero su Senza Storie di Luisa Ruggio (Besa editrice)





















Deve essere successo ai piu' meritevoli almeno una volta. Una condizione vigile, un abbandono totale, insieme, tali da far riaffiorare tutti i frammenti della vita, come una calamita prendersi, orco, anche tutte le altre, precedenti, adiacenti e successive. Un buco nero. Un buco bianco. Galassia. Inferno. Paradiso. La fragile onnipotenza. La decadenza. La fierezza.
Luisa Ruggio, Sperma, dal suo blog http://astrolabioquaderniblogs.it

Oggi si chiede qualcosa di assai diverso, meno improntato all'obbedienza diretta: si chiedono semplificazioni. Si chiede di ignorare la complessità vivente delle cose. Si chiede di semplificare o di lasciarsi semplificare in modo da collocarsi liberamente di qua o di là, nelle caselle predisposte. Il potere è appunto, come avrebbe detto Foucault, un insieme di relazioni e di procedure entro cui viene a restringersi il campo di selezione degli individui, e che agisce sia a livello delle azioni sia a livello cognitivo.

Carla Benedetti, Il tradimento dei critici, Bollati Boringhieri, Torino, 2003

Il terzo libro di Luisa Ruggio, la raccolta di racconti Senza storie (Besa editrice, 2009) ha meritato ieri un Riconoscimento speciale nell'ambito del Premio Vittorio Bodini. Sulla scena dei romanzi italiani contemporanei, dentro i manufatti stampati a spron battuto nelle ultime decine d'anni mancano spesso il respiro del lavoro serrato sulla pagina e l'ombra fertile di un laboratorio costante, artigianale; mentre si insinua sempre di più nella società dei lettori, degli autori e dei critici la persuasione che seguire genericamente “l'ispirazione” e possedere scarni strumenti tecnici possa bastare a comporre un racconto valido, a strutturare un romanzo di valore. Luisa Ruggio è una scrittrice, grazie a Dio, con un proprio raffinato laboratorio di scrittura; e il suo stile non assomiglia a quello di nessun altro. Se i circuiti editoriali deludono, e i premi letterari, anche quelli prestigiosi, arrivano oggi a celebrare libri di levatura mediocre, ecco invece la risposta di un autore che crede con fermezza che la Scrittura significhi operare nel travaglio delle ottime letture. Una scrittrice che coltiva con pazienza la maturazione del proprio linguaggio originale.

Che ha dei potenti contenuti da esprimere.

La scrittura di Luisa Ruggio ha un respiro europeo: questo cavallo di razza correrà lontano.

Certe atmosfere delle pagine di Senza storie ricordano gli spazi essenziali, nitidi, intelligenti di narrazioni pirandelliane, i paesaggi aspri e aciduli di certe prove del Verga. Eppure questi racconti si nutrono del presente, di cinema, di teatro, di arte contemporanea. E dell'universo del web, a cui la gestazione di queste storie è legata.

L' esperienza della scrittrice nel suo blog Dentro Luisa http://luisaruggio.blogs.it : quello che per molti risulta ancora un non luogo, uno spazio dove rischiare di smarrire il senso, per Luisa è stato un crocevia che lei è stata capace di addensare di significato e valore, convertendolo- in condivisione con altri blogger - in un originale, pregiato remake degli estinti caffè letterari. Nella lingua utilizzata con duttilità dall'autrice troviamo termini quasi in disuso : “agitò i piedi nell'aria e vuotò l'ambascia”( Allunaggio di un uomo qualunque) ed inserti del linguaggio comune: “- Dov'eri quando Kurt Cobain si è sparato?” (Lithium)

Se occorre, l'autrice inserisce nel testo alcuni tratti distintivi del parlato regionale o locale, senza mai scivolare nel mimetismo dialettale. La resa fonetica è infatti marcata dalla differenziazione del font con il corsivo (con effetti anche fortemente spiazzanti e comici). “- Spinelli! Ah ma si' ttu Spinelli!E lo potevi dire prima!Gnerno', chill'scurnacchiat di mio figlio nun ci sta, possiamo parlare noi due indisturbando!”. (Le ricordanze)

Un rapporto entusiasmante con certi episodi dell'esistenza che dai più sono stati da tempo frettolosamente imbaulati in soffitta, come il gesto della pera data dalla nonna alla bambina che batte le mani per la gioia; la semplicità dei giochi dei bambini. Luisa Ruggio traccia davanti a noi la sua visione del mondo senza neppure passare da uno dei luoghi comuni della narrazione meridionale tipica, come ha colto Felice Blasi nella sua acuta recensione: “(...)Ma perche', ci chiediamo, la narrazione delle psicologie femminili deve essere sempre interpretata come una letteratura della fisicita'? Questi racconti, al contrario, seguono un'idea piu' generale, quella della pienezza del mondo, rinominando il quale ci si sente salvi ancora una volta: come "quando noi sapevamo ancora leggere: gli alberi, i rigagnoli, la mollica di pane, i passaggi segreti dei ragni di campagna leggeri tra le stoppie - grossi, come le spille che la merciaia si appuntava sugli involti di lana, rintanata nella bottega dei nastri - le facce salmastre della luna".

Dovevamo imparare a scrivere per dare nomi al mondo, come fa l'io-bambina dell'autrice: eppure qualcosa, forse una capacita' di leggere il mondo, e' andato perduto. L'infanzia e il ricordo sono una via per ritrovare un rapporto con la realta', le persone ed i luoghi non mediato e non tradito dal consueto immaginario meridionale”.

Felice Blasi, “Corriere del Mezzogiorno”, sabato 13.03.2010

Lo stile di Luisa. A tratti, arriva un sapore stilistico sudamericano: “Dunque è qui che sale il sangue degli uomini, dove hanno fine tutte le risse, e le donne hanno sguardi di animale fantastico, denso e stupefatto”. (Il bar degli appuntamenti mancati). A volte, traslitterazioni di senso, in cui gli oggetti si umanizzano; “L'anguria dissanguava il suo umore sul vassoio bianco e azzurro”(Allunaggio di un uomo qualunque) o dove, viceversa, il processo metamorfico riguarda gli esseri umani: “Un pianoforte che muore. In realtà fu mio nonno a morire. Il pianoforte fu - semplicemente- venduto da mio padre, fu fatto sparire, tornò in quel nulla dal quale era apparso”. (Le due variazioni sul fatto). La mitografia cinematografica è presente, e una teatralità non di superficie, se nei numerosi ritratti (Rirì, Vittoria, Melina, Maria, la cantante lirica, Davide, Carmela) presenti nell'opera l'autrice svela e sintetizza movimenti, parti di sinfonie nascoste, o visibili a pochi; ragiona dell'accordatura fra anima e corpo.

Luisa seleziona il gesto Principale, che stigmatizza chi agisce; che non riduce mai a stereotipo, a macchietta il personaggio: “Allora faceva quel gesto. Teneva uno strofinaccio da cucina stretto in un pugno, contro lo sterno e, con l'altra mano, si assicurava la balaustra del balcone come se si trovasse improvvisamente sul parapetto di una nave”. (Le ricordanze)

Oppure:

“Aveva visto sua madre andarsene verso il bosco e posare la sua fronte contro i nodi di un tronco, agitare debolmente le corde dell'altalena ricavata da un pezzo di legno sbiancato dalle piogge”.(Allunaggio di un uomo qualunque)

Una sottile e dignitosissima geremiade è presente in alcuni racconti. Si tratta, in fondo, di questo: le qualità sottili e speciali degli uomini sono pressochè invisibili. Con dignità si dice del mazzo di destini non raccolti da uno sguardo, da chi non ascolta, non è capace di andare a fondo di enigmi: “Che ne sanno i vicari indifferenti? Che gli frega se il mio canto ha radici nell'uomo?” (Il bar degli appuntamenti mancati). Si sottolinea, poi, per contrasto, quanta vita possa generare il riconoscimento di uno sguardo, capace di fare grandangolo di chi gli sta di fronte e quindi, di generare un destino: “L'ascendente di Orson Welles su Rita Hayworth. L'ombra di un pianeta sull'altro. Una lenta calligrafia che fino a un certo momento ignoriamo,un codice che ci investe col suo potere. In definitiva non altro, fuorchè uno sguardo”. (Sedici noni in bianco e nero)

“Lei all'improvviso sa che da qualche parte esiste qualcuno attraverso cui riuscirà un giorno a vedersi perfettamente, uscendo dalle acque di ogni pudore “. (L'istante)

A volte l'autrice fa intuire un possibile ampliamento dell'esperienza di condivisione su piani diversi, che riguardano l'invisibile. Questi temi sono trattati con delicatezza sognante, accurata, nebbiosa: “Aveva una potente teoria riguardo la signora della villa in fondo al bosco, perché su un tappeto di pigne indigene di soavità si fermava a raccontarle la storia dei pinoli da arrostire che hanno sempre un'anima, chiara e sottile. Ne sbucciava uno e parlava di cose al confine fra gli alberi e la natura umana.

Sormontate dalle foglie se ne stavano lì, su quelle radici che emergevano come nativi nascosti dietro i fumi voluttuosi della terra, spandendosi in un istante di silenzio”.(Tra gli alberi)

Ne La collana blu, la tela narrativa approntata è lasciata andare nell'indefinito, aperta a spiragli di incommensurabile; eppure si parte da elementi terreni, si affondano parole e denti nell'erba, nelle pietre.

Le parole di Luisa, insomma, riescono a reggere l'irruenza del fiabesco. Così accade nel bellissimo La volpe, dove l'esperienza delle prime mestruazioni di una ragazzina è catalizzatore di avvenimenti di sapore quasi leggendario: “E lei uscì. Dal fondo del buio. Aveva morbidi occhi gialli, densa aggiunta improvvisa di note violino.

Qualcosa che ti fa sentire bene da che parte è rivolta la lama del coltello”.

Il riversarsi della mitologia nel quotidiano. La sapienza quasi scomparsa, oggi, del riuscire a dilatare le esperienze, la confidenza quasi dimenticata, ormai (e comunque non più tramandata da generazione a generazione) con l'elemento poetico- magico radicato saldamente agli oggetti, alle cose, ai paesaggi, ai corpi; l'indiviso, l'assenza di fratture interne, delle nevrosi che fanno perdere tempo prezioso, che scartano la bellezza.

E'il mondo che conosce Medea prima di incontrare Giasone.

Le metafore usate a volte per descrivere un paesaggio, o per enunciare ampi significati (dove comunque non resta mai traccia di un gesto asettico o arcigno di giudizio sulle cose del mondo), possiedono delle svolte lessicali e aggettivazioni inusuali, dipingono la visione con assertività, non l'abbozzano; l'indefinito. come scrivevamo, è lasciato a un livello narrativo più alto, alla struttura, all'intreccio:

“A volte la vita sembra solo la necessità di compiere qualcosa, qualunque cosa, in un tempo minore di quello consentito”. (Ma nuit chez Roché)

Oppure:

“Capita che, cogliendola nell'atto di intenerirsi, alcuni le dicano:

- Così non farai mai i soldi!

- Lei commenta: tutto quanto c'è di meraviglioso in Shakespeare svanisce appena taluni aprono bocca!”

(Fatti proprio così)

E ancora: la sintesi di cui è capace la scrittrice stupisce, rompe il respiro del lettore, crea un'aritmia cardiaca nel racconto; è un fioretto puntato al petto del lettore, all'altezza dello sterno. Una frase rapidissima, che descrive in un lampo un personaggio e un mondo:

“Le fibbie fermate da bottoncini, tacchi che avevano dato un suono al secolo”. (Le ricordanze)

Oppure; essenziale, assoluto:

“Oltre quell'albero finiva il mondo. E cominciava il grano.”

(Notturno di Chopin, Opera 9 Numero 2)

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