C’è un
poeta nella Scandinavia norvegica. Le ultime parole del poeta Luigi Di Ruscio,
nato nel 1953 in Italia e morto nel 2011 in Norvegia, aggrediscono come fecero
i primi versi del scrittore-operaio. Una lunga, e a tratti volutamente
ripetitiva, confessione nella prosa lirica anti-letteraria per la quale il
poeta-operaio od operaio-poeta viveva. Dalla sua lingua, con la sua irriverente
lingua. (solamente in questo caso, è possibile specificare in merito, Nori
Paolo arriva secondo). "La mia prima raccolta del 1953, avevo 23 anni, è
una raccolta delle miserie del primo dopoguerra di un vicolo di Fermo.
Immaginavo che le mie poesie di quella miseria non avrebbero resistito,
verranno tempi migliori quella prima raccolta sarà l'illustrazione di tempi
passati e dimenticati. Il tragico è che ripubblico una buona parte di quelle
poesie nel 2007, 54 anni dopo e sono ancora attuali". I temi: la scrittura
e il mondo letterario, la fabbrica e la famiglia, l’opposizione intransigente
al leccaculismo e al consumismo. Insomma contro il capitalismo. Ma dal
privilegio dell’indigenza, dal margine non marginale d’una quasi povertà.
Sicuramente tutta dignità. Da un comunista nostalgico, certo. Che fu pure
nostalgico di qualcosa che i comunisti non sempre fecero: la pratica inarrestabile
e affaticabile del contrasto assoluto e senza mezzi termini a ogni forma di
contrattazione al ribasso e compromessi rivelatisi in definitiva solo svendita
dei valori. Tanto che già quando pure parte della sinistra baciava i piedi e
l’anello della potentissima Chiesa fermana al fine d’ottenere un lavoro
salariato, Di Ruscio salì nella Norvegia della neve d’Oslo che lo accompagnò,
con tanto di moglie Mary e figli, al pensionamento. Le parole di Minervino
poste in calce al testo, sono troppo amicali per riportarle. E quelle
d’apertura del “giovane” Ferracuti son troppo di parte – Angelo Ferracuti è
stato tra i maggiori sostenitori del poco considerato Luigi Di Ruscio. Ma
affidandoci, appunto, soltanto alle parole del poeta, scopriamo e/o riscopriamo
il suo mondo. A cominciare dai contenuti che ha sempre vissuto. E dettato ai
posteri. Bellissima, comunque, l’irriverenza nei confronti del sistema
editoriale, comunque portata con colpi di spada, fendenti indimenticabili. Ché
Di Ruscio fa i nomi. Non per irridere, appunto, quelle persone (W. Siti in
primis). Perché il poeta si scaglia, con questa aggressione e usando tali
critici a emblema, ai ragionamenti celati sotto il materasso della stima agli
autori. E se siam sicuri che un giorno la Mondadori dedicherà uno dei suoi
libro al Di Riuscio, siamo altrettanto certi di come si tratterà della seconda
mancanza di rispetto. Tipo quel Sanremo odiato da Fabrizio De Andrè pronto a
permettersi di celebrarlo da morto. Per tornaconti di marketing, punto. In
“Zibaldone norvegico”, libro che intanto raccoglie non tutti gli scritti in
versi e di prosa inediti di Luigi Di Ruscio, vediamo l’accanimento terapeutico
su e per se stesso che il poeta italiano dona alla fine al proprio luogo di
nascita, l’Italietta, l’ex Belpaese che segue per cronaca grazie agli
abbonamenti a Corriere e Repubblica on-line. Nei passaggi meglio riusciti, per
esempio, il poeta italiano e scandinavo, amante della lingua scritta (tradotta
pure) che lo ospita e da riscrivere (solo pochi libri in italiano e forse
sempre quelli, premesso che diversi poeti anche della sua generazione non ‘riusciva’
più a leggerli) gioca coi nomi di politici fra i quali del ducetto d’Arcore e
del sommo di Bologna. Oppure sperimenta un catapultarsi in un’ossessione per il
passato sorpassato, vedi il secondo Dopoguerra. Riletto e, certamente,
rimembrato in quanto troppo simile, per problemi e peso specifico della gente
povera, al presente dell’oltre Terzo millennio. Sempre meno del “Palmiro”,
eppur la farina è la stessa. Il materiale lasciato da Di Ruscio è materia viva.
Chi l’ha amato, l’amerà. Il resto farà finta.
Nessun commento:
Posta un commento