Daniele Cambioso, Ettore Maggi
Rusconi libri
pag. 288
€.12,90
L’ombra del destino è, nella sua essenza, il libro che si legge tutto di un fiato. Parlo di essenza perché il fascino di questo romanzo, il suo avvincerci fino all’ultima parola, non risiede solo, e principalmente, nel dispiego di una tecnica retorica ben congegnata.
Certo, leggiamo questa storia con l’ansia di vedere come finisce, presi dalle sue vicende come in un’allucinazione, in virtù di una ragionabile serie di strumenti diegetici adoperati con immodesta maestria.
L’ombra del destino, possiamo congetturare subito, ci cattura grazie alle strategie messe in atto dal genere letterario in cui si iscrive ottimamente: la spy story. Il romanzo ci fa vivere l’avventura (anzi, ci fa vivere nel destino) di Stefano e Giulio che, giovani studenti, (siamo negli anni Settanta) vengono arrestati per una loro presunta appartenenza alle brigate rosse. Viene loro offerta la possibilità di non subire i danni di un simile sospetto: devono accettare di essere coartati al servizio delle forze dell’ordine. Sedici anni dopo, nel 1995, sullo sfondo di una complicata trama che unisce i quadri del neofascismo a quelli dei servizi segreti italiani e delle diverse forze militari e politiche in lotta nella dilaniata Jugoslavia, la loro scelta forzata (una scelta del destino) conosce il suo tragico esito finale. Una spy story delle migliori, dunque, ma anche (dal momento che la storia dei generi letterari è una storia di lotte e invasioni), un notevole western. Ma fin d’ora si potrebbe dire qualcosa di più: il libro parla di destino, della sua necessaria struttura ontologica; del fatto che si presenta all’uomo sempre come nemesi. Questo riconduce inevitabilmente il romanzo all’epica e alla tragedia classica.
Ancora: questa storia ci attrae perché ci parla da vicino. Niente come la narrazione storica, o dei grandi personaggi del passato, ammalia la nostra fantasia. Il passato, potremmo dire, è la lingua dell’anima. In questo romanzo la storia, quella nostra, e quella recente, ci si offre come fatta della migliore materia del sogno. Dovrei dire dell’incubo. E così il lettore può godere con estasiato terrore dell’esibizione dei fatti più o meno occulti che determinano la sua realtà quotidiana. Uno spettacolo, c’è da crederlo, che non lascia indifferenti.
Infine, (ultimo non per importanza) il lettore che si incatena a queste vicende è certamente vittima di una speciale capacità mimetica nella resa delle scene e dei personaggi. Personaggi conosciuti per mezzo di un vischioso intreccio di analisi psicologica (sappiamo tutto di loro: storia, pensieri, rapporti famigliari) e di rivelazione mitologica (gli autori ce la danno sfacciatamente: una cavaliere senza macchia e senza paura è Giulio; Stefano è l’eroe imperfetto: un re Artù e un sir Galvano, per intenderci). Una vera e propria invasione della fantasia che impone al lettore un’identificazione totale.
Bene, questi tre elementi (la perfetta esecuzione di un romanzo d’avventura, quella di un racconto storico, e la disanima impeccabile di due personaggi umani) cadrebbero nel vuoto se a sostenerli non fosse la struttura ontologica, filosofica del dettato narrativo.
In altri termini, lo spettacolo davanti al quale ci mettono, senza possibilità di riparo, gli autori è quello della configurazione del cosmo.
È come nei film di Hitchcock: possiamo vederli e rivederli in continuazione non perché siano ottimi gialli, ma perché scoprono trame gnostiche, vedantiche. Allo stesso modo, possiamo leggere e rileggere L’ombra del destino perché ci rivela il mondo dal punto di vista del nostro destino individuale; ci rivela come il nostro destino individuale sia soggetto a un meccanismo tanto complesso quanto fatale in cui la necessità e il caso giocano di sponda (giocano con noi di sponda) per il mantenimento del meccanismo medesimo. È la stessa allucinante teologia che godiamo nell’improbabile Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. Il meccanismo qui rappresentato nella versione pecoreccia, dadaista caligoliana del potere così come è concepito nel nostro bel paese, dove l’esercizio esornativo del potere è perentoriamente un esercizio contro qualcuno; è un gioca al rincaro con il caso e l’arbitrio; una negazione della civiltà esaltata a criterio civile o, meglio, a intrattenimento di corte.
Ogni italiano può essere l’oggetto (lo zimbello) di questo intrattenimento, come Stefano e Giulio. Per questo leggiamo la loro storia con il fiato sospeso.
Certo, leggiamo questa storia con l’ansia di vedere come finisce, presi dalle sue vicende come in un’allucinazione, in virtù di una ragionabile serie di strumenti diegetici adoperati con immodesta maestria.
L’ombra del destino, possiamo congetturare subito, ci cattura grazie alle strategie messe in atto dal genere letterario in cui si iscrive ottimamente: la spy story. Il romanzo ci fa vivere l’avventura (anzi, ci fa vivere nel destino) di Stefano e Giulio che, giovani studenti, (siamo negli anni Settanta) vengono arrestati per una loro presunta appartenenza alle brigate rosse. Viene loro offerta la possibilità di non subire i danni di un simile sospetto: devono accettare di essere coartati al servizio delle forze dell’ordine. Sedici anni dopo, nel 1995, sullo sfondo di una complicata trama che unisce i quadri del neofascismo a quelli dei servizi segreti italiani e delle diverse forze militari e politiche in lotta nella dilaniata Jugoslavia, la loro scelta forzata (una scelta del destino) conosce il suo tragico esito finale. Una spy story delle migliori, dunque, ma anche (dal momento che la storia dei generi letterari è una storia di lotte e invasioni), un notevole western. Ma fin d’ora si potrebbe dire qualcosa di più: il libro parla di destino, della sua necessaria struttura ontologica; del fatto che si presenta all’uomo sempre come nemesi. Questo riconduce inevitabilmente il romanzo all’epica e alla tragedia classica.
Ancora: questa storia ci attrae perché ci parla da vicino. Niente come la narrazione storica, o dei grandi personaggi del passato, ammalia la nostra fantasia. Il passato, potremmo dire, è la lingua dell’anima. In questo romanzo la storia, quella nostra, e quella recente, ci si offre come fatta della migliore materia del sogno. Dovrei dire dell’incubo. E così il lettore può godere con estasiato terrore dell’esibizione dei fatti più o meno occulti che determinano la sua realtà quotidiana. Uno spettacolo, c’è da crederlo, che non lascia indifferenti.
Infine, (ultimo non per importanza) il lettore che si incatena a queste vicende è certamente vittima di una speciale capacità mimetica nella resa delle scene e dei personaggi. Personaggi conosciuti per mezzo di un vischioso intreccio di analisi psicologica (sappiamo tutto di loro: storia, pensieri, rapporti famigliari) e di rivelazione mitologica (gli autori ce la danno sfacciatamente: una cavaliere senza macchia e senza paura è Giulio; Stefano è l’eroe imperfetto: un re Artù e un sir Galvano, per intenderci). Una vera e propria invasione della fantasia che impone al lettore un’identificazione totale.
Bene, questi tre elementi (la perfetta esecuzione di un romanzo d’avventura, quella di un racconto storico, e la disanima impeccabile di due personaggi umani) cadrebbero nel vuoto se a sostenerli non fosse la struttura ontologica, filosofica del dettato narrativo.
In altri termini, lo spettacolo davanti al quale ci mettono, senza possibilità di riparo, gli autori è quello della configurazione del cosmo.
È come nei film di Hitchcock: possiamo vederli e rivederli in continuazione non perché siano ottimi gialli, ma perché scoprono trame gnostiche, vedantiche. Allo stesso modo, possiamo leggere e rileggere L’ombra del destino perché ci rivela il mondo dal punto di vista del nostro destino individuale; ci rivela come il nostro destino individuale sia soggetto a un meccanismo tanto complesso quanto fatale in cui la necessità e il caso giocano di sponda (giocano con noi di sponda) per il mantenimento del meccanismo medesimo. È la stessa allucinante teologia che godiamo nell’improbabile Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. Il meccanismo qui rappresentato nella versione pecoreccia, dadaista caligoliana del potere così come è concepito nel nostro bel paese, dove l’esercizio esornativo del potere è perentoriamente un esercizio contro qualcuno; è un gioca al rincaro con il caso e l’arbitrio; una negazione della civiltà esaltata a criterio civile o, meglio, a intrattenimento di corte.
Ogni italiano può essere l’oggetto (lo zimbello) di questo intrattenimento, come Stefano e Giulio. Per questo leggiamo la loro storia con il fiato sospeso.
Pier Paolo Di Mino
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