Sono convinto che un giorno chi legge, chi farà cultura, chi produrrà senso insomma, verrà guardato con disprezzo, verrà additato come un morbo che vuole distruggere la società con le sue “dotte” farneticazioni, e questo per quanto riguarda letteratura e arti figurative … figuriamoci poi chi indosserà le vesti sacre della Poesia. Altro che Salem! Ma forse sono solo semplici e puerili fantasie di un caldo mattino d’estate. La Poesia rimane ancora un terreno minato, e sinceramente si incontrano sempre meno buoni libri di versi, sia perché ci sono sempre meno poeti o “sognatori” di un certo spessore, sia perché spesso si fa confusione nel classificare un lavoro come poetico. Di recente la casa editrice Mursia mi recapita un libretto davvero splendido, che ho letto tutto d’un fiato. Il titolo è “Tatemije” di Assunta Finiguerra (1946/2009), poetessa nata nel dopoguerra, neorealista, inserita nel progetto editoriale della casa editrice milanese all’interno della collana Argani, inaugurata da Franco Loi e poi da Guido Oldani, due maestri della Poesia contemporanea. Tatemije (Padre mio), raccolta uscita postuma di una donna nata come sarta e poi divenuta (piuttosto tardi, nel 1995 per la precisione) una vestale del verso. La sua lingua, il suo dialetto, il lucano, assurge al ruolo di lingua idonea a far sentire il respiro della poetessa lucana, la sua ironia, il suo voler scomporre il reale in frammenti di disperazione più piccoli, tollerabili per chi ha una soglia del dolore molto bassa. Ogni componimento (il lettore troverà il testo a fronte che non fa perdere la bellezza e la freschezza nel ritmo) è una lama che lacera l’infinito, e lo fa senza troppi fronzoli. Come in un gigantesco rogo la Finiguerra canta qualsiasi cosa perchè tutto è degno di essere cantato, perché tutto deve essere detto a qualsiasi costo. Poetessa europea, e lo si può affermare con assoluta serenità, insegna come la leggerezza, spesso è sostenibile, e senza necessariamente una lobotomia!
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