Distese di zucche maculate, grappoli di falli, pois, ramificazioni,
tentacoli che svettano da terra e tentacoli annodati di millecolori
incandescenti, piante e fiori che si spingono fino al soffitto. Dentro
ogni cosa, lei, Yayoi Kusama (Matsumoto, 1929), l'artista camaleonte che
ha trasformato la paranoia, le allucinazioni uditive e visive, l'ansia
ossessiva e le aritmie in un loop di forme e colori, in un habitat al
contempo fiabesco, sospeso e sinistro dove la ripetizione è
decostruzione della paura. Nella storia della donna che ora vive
volutamente in un istituto psichiatrico, sempre con i colori alla mano a
farle da scudo magico, convivono l'infanzia tra le voci dei campi di
violette, le tele strappate dalla madre, i tradimenti del padre che era
costretta a spiare. E poi la lettera a Giorgia O'Keefee, la fuga a New
York, in valigia sessanta kimono e duemila tra disegni edipinti da
vendere. In America Kusama soffre la fame, la depersonalizzazione e la
fobia sono tali che non basta dipingere una tela, bisogna dipingere
tutto quello che c'è attorno e lì restare. E mentre resta Yayoi cavalca
la rivoluzione hippie, conosce Cornell, Warhol,Read e Smith, invade le
gallerie, trova il coraggio di tornare in Giappone, tenta il suicidio, e
dopo venti anni in cui il vuoto spezza la fama, una retrospettiva a New
York la rimette al suo posto.
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