«Quelli che riecheggiano lassù, fra le cime, non sono tuoni. Il fragore
delle bombe austriache scuote anche chi è rimasto nei villaggi, mille
metri più in basso. Restiamo soltanto noi donne, ed è a noi che il
comando militare italiano chiede aiuto: alle nostre schiene, alle nostre
gambe, alla nostra conoscenza di quelle vette e dei segreti per
risalirle. Dobbiamo andare, altrimenti quei poveri ragazzi moriranno
anche di fame. Questa guerra mi ha tolto tutto, lasciandomi solo la
paura. Mi ha tolto il tempo di prendermi cura di mio padre malato, il
tempo di leggere i libri che riempiono la mia casa. Mi ha tolto il
futuro, soffocandomi in un presente di povertà e terrore. Ma lassù hanno
bisogno di me, di noi, e noi rispondiamo alla chiamata. Alcune sono
ancora bambine, altre già anziane, ma insieme, ogni mattina, corriamo ai
magazzini militari a valle. Riempiamo le nostre gerle fino a farle
traboccare di viveri, medicinali, munizioni, e ci avviamo lungo gli
antichi sentieri della fienagione. Risaliamo per ore, nella neve che
arriva fino alle ginocchia, per raggiungere il fronte. Il nemico, con i
suoi cecchini – diavoli bianchi, li chiamano – ci tiene sotto tiro. Ma
noi cantiamo e preghiamo, mentre ci arrampichiamo con gli scarpetz ai
piedi. Ci aggrappiamo agli speroni con tutte le nostre forze, proprio
come fanno le stelle alpine, i «fiori di roccia». Ho visto il coraggio
di un capitano costretto a prendere le decisioni più difficili. Ho
conosciuto l’eroismo di un medico che, senza sosta, fa quel che può per
salvare vite. I soldati ci hanno dato un nome, come se fossimo un vero
corpo militare: siamo Portatrici, ma ciò che trasportiamo non è soltanto
vita. Dall’inferno del fronte alpino noi scendiamo con le gerle
svuotate e le mani strette alle barelle che ospitano i feriti da curare,
o i morti che noi stesse dovremo seppellire. Ma oggi ho incontrato il
nemico. Per la prima volta, ho visto la guerra attraverso gli occhi di
un diavolo bianco. E ora so che niente può più essere come prima.»
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